C’è qualcosa di tenero nel modo in cui la sinistra italiana continua a credere che il suo principale problema sia la comunicazione. È un rito che si ripete come le stagioni: a ogni scossa politica partono task force, brainstorming, slogan ripuliti, loghi nuovi di zecca, appelli all’unità “definitivi”. E come ogni stagione, si ricomincia da capo, con lo stesso mantra: nuova narrazione e nuova identità. È dal 2007 che il Partito democratico annuncia l’ennesima rinascita; finisce sempre con una riunione d’emergenza quando arrivano i sondaggi.
Eppure, per una volta, qualcosa di diverso è accaduto davvero. Dopo il successo largo in Campania e Puglia, e il significativo avanzamento in Veneto, il centrosinistra si è accorto di un fatto che negli ultimi dieci anni ha preferito ignorare: quando la sinistra fa la sinistra e smette di imitare il centro, vince. E quando smette la guerra di religione interna con il M5S e prova -anche solo timidamente- a costruire un fronte comune, l’elettorato risponde.
D’improvviso, lo scenario che veniva raccontato come impossibile -PD e M5S che trovano un terreno comune – appare non solo realistico, ma addirittura produttivo. E questo cambia completamente la cornice dell’analisi.
Il PD come agenzia pubblicitaria di sé stesso
Negli ultimi quindici anni il PD si è comportato come un’agenzia di comunicazione costretta a vendere un prodotto che non piace più. Un partito che sembra convinto che la colpa sia sempre della pubblicità fatta male, mai della sostanza. Il risultato è paradossale: un brand sofisticato, molto estetico, molto valoriale… e sempre più lontano dal paese reale.
Il PD è l’anomalia del panorama democratico occidentale. È nato per unire – cattolici, riformisti, ex comunisti- ma da quasi vent’anni vive in un limbo identitario. Nessuno ha mai pronunciato, con chiarezza, la frase che tutta la base vorrebbe sentirsi dire: “Ecco cosa siamo”. Troppa paura di scontentare qualcuno. Troppa paura di scegliere e quindi una reputazione che tarda ad essere chiara.
La destra, nel frattempo, ha colonizzato l’immaginario. Giorgia Meloni presenta il suo pacchetto “Dio, patria, famiglia” come se fosse un prodotto premium: semplice, diretto, rassicurante. L’elettorato di destra vive di emotività, di mito ed ha memoria corta per le promesse non mantenute; quello di sinistra no, si fa un nodo al fazzoletto e ricorda. Non stanno giocando allo stesso gioco.
Dal prodotto Prodi al packaging Schlein
Se raccontiamo la storia del centrosinistra come un caso di brand management, il quadro è spietato.
Prodi era un prodotto solido: sobrio, europeista, affidabile. Messaggio semplice, coalizione larga, obiettivo chiaro: battere Berlusconi. Funzionava.
Renzi è stato il rebranding più spettacolare: parole veloci, rottamazione, grafica da Apple Store. Per un po’, ha funzionato. Poi venne fuori che dentro il pacco c’era la solita miscela democristiana.
Letta ha riportato tutto nel grigiore: competenza tanta, ma raccontata con il tono di chi sta leggendo un regolamento condominiale e nel modo più noioso, da predicatore dal pulpito.
Schlein ha scelto il linguaggio internazionale e l’estetica indie, ma senza definire il target. Un messaggio calibrato per intellettuali urbani, inafferrabile per chi non arriva a fine mese, ceti popolari e periferie. Troppo aulico, poca concretezza.
Il marketing della purezza
C’è un tratto genetico della sinistra italiana: la tendenza a moralizzare il proprio elettorato. Ogni proposta pragmatica viene bollata come un tradimento dei sacramenti, come se fosse una religione; mentre un partito, che ha un feticismo per la coerenza ed il sociale, dimentica che a volte la politica serve anche a cambiare la realtà, non a compilare dichiarazioni di principio.
Nel frattempo, la destra parla a pancia e cuore: identità, sicurezza, accise e tasse. Poi non mantiene nulla perché sbatte contro il muro della realtà, ma non importa: ha costruito un racconto.
Il PD invece parla come se stesse compilando un rapporto ONU per specialisti. Un linguaggio perfetto nei quartieri gentrificati, totalmente inefficace per le periferie.
Poi arrivano Campania, Puglia e il Veneto. E il quadro cambia.
Ed ecco la svolta: quando si guarda ai risultati delle regionali, si capisce che qualcosa è successo o comincia a succedere. Non si tratta di miracoli, né di derive populiste: è semplicemente la dimostrazione che la sinistra, quando parla dei problemi reali, quando smette di rincorrere il centro e quando decide di collaborare con il M5S invece di esserne in conflitto, torna competitiva.
Il segnale è stato chiarissimo: dove centrosinistra e M5S trovano una sintesi, funziona; dove il PD non si chiude nel moralismo, funziona; dove si parla di salute, affitti, salari, infrastrutture, e non di purezza ideologica, funziona; dove la sinistra smette di smarrirsi di essere sinistra, funziona.
Il caso della Puglia è emblematico: nonostante la complessità interna, il campo progressista ha retto e convinto. In Campania, la coalizione larga ha fatto il resto. E persino in Veneto, terreno storicamente leghista, c’è stato un avanzamento che fino a un anno fa sembrava fantascienza.
Questi successi non sono casuali. Sono la prova empirica che il problema non è l’elettorato, ma la confusione strategica del prodotto, che non era capito dai consumatori.
La sinistra vince quando smette di fare filosofia
La lezione arriva anche da oltreoceano: a New York, la sinistra ha vinto facendo… la sinistra. Parlare di affitti, trasporti, costo della vita, salari. Niente sermoni valoriali. Politica concreta che parte dalla vita quotidiana. È esattamente ciò che sta succedendo in Italia: laddove il centrosinistra torna a parlare di sanità che cade a pezzi, di stipendi fermi da trent’anni, di giovani costretti a scappare, la gente ascolta. Il PD finora si è suicidato da solo non perché è troppo radicale o troppo moderato, ma perché non è stato leggibile. Perché ha avuto paura di scegliere una direzione. Perché è stato convinto che il problema sia il tono della campagna. Ma il marketing politico serve solo a rendere chiara una scelta.
E il PD, una scelta, non l’ha fatta per troppo tempo.
La bussola ritrovata (forse)
Il centrosinistra italiano ha un talento indiscutibile: riesce a fare tutto tranne la cosa più semplice. Avere una direzione. Non serve sbugiardare Meloni ogni giorno. Non serve cambiare logo. Non serve indignarsi sui social. Non serve insistere ossessivamente sul centro. La strada, in realtà, è la più antica del mondo: parlare di chi sta peggio per avere l’attenzione di quelli che stanno peggio.
E i risultati regionali mostrano che quando lo si fa, l’elettorato risponde. La vera domanda ora è un’altra: il PD avrà il coraggio di trasformare questi segnali in una strategia nazionale? Avrà la forza, politica e culturale, di rompere il tabù dell’alleanza strutturale con il M5S? Avrà il coraggio di smettere di essere un marchio intellettuale da salotto e tornare a essere un partito popolare? Avrà finalmente una bussola, una direzione, una scelta… e abbandonerà la storica passione per le trame sotterranee che tanto piacevano a D’Alema? C’è già una fronda che parla di sostituire la Schlein, una che ha trovato il PD a pezzi al 17% e l’ha portato al 23%., non è stato un boom ma di sicuro una stabilizzazione.
Se persegue tutto ciò, il cosiddetto “campo largo” non sarà più uno slogan indigeribile, ma diventerà -forse- un progetto politico.

