Il sapere sibillino del “pallone”

"Granata" è parte dell’inedita raccolta “Umori” dedicata alla città di Salerno. Un racconto che racchiude tutto il fascino del calcio e delle chiacchiere da bar

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“Il portiere era troppo statico”. A via Poseidonia tutti i bar sono una succursale dello Stadio Arechi. Alcuni di essi hanno uno statuto di bar della Salernitana, sono stati arredati da ultras della Curva Sud con sciarpe intrise di sudore, gagliardetti, foto autografate di giocatori stranieri. Alcuni locali si fregiano del titolo di Bar Granata. Da via Poseidonia, Mercatello, Mariconda, si cammina verso l’acme della tifoseria. Da questi luoghi nelle ore che preludono alla partita della domenica o del sabato, si vedono gruppetti con grandi bandiere, laiche processioni, camminare a piedi verso zona Stadio, che dista pochi minuti. Viaggiando in auto ti accorgi dei gruppi di giovani e meno giovani, i trentenni e quarantenni in gruppi di uomini soli. I ventenni portano anche le fidanzate a seguito, a maggio già in pantaloncini, abbronzate, gambe lisce e scattanti pronte a intonare sugli spalti, atletiche e turgide, le canzoni care ai propri ragazzi, sotto sotto non vedono l’ora che finisca per fare altro, ma rimangono performanti, maschere. Oltre i quarant’anni ci sono i padri coi figli piccoli per la prima volta allo stadio: è lì la sintesi estrema e l’apoteosi dei gadgettismo. I bambini hanno cappellini granata, sciarpette granata, se fa caldo una t-shirt, dei calzini, le scarpe granata, il passeggino granata. Tutto ciò che si può sfoderare lo si mostra: si va in curva. Un’altra tipologia di tifosi arriva in auto dal centro, rimane spesso imbottigliata nel traffico e nei posti di blocco dei carabinieri, finanza, polizia municipale che controllano gli accessi allo stadio, ha l’abbonamento per le tribune azzurra o rossa. Allo stadio va col mocassino e una camicia di alta sartoria stirata dalla donna delle pulizie di mammà. Questi sono più sobri in quanto ad abbigliamento, dopo la partita hanno aperitivi, situazioni, per cui che si vinca o si perda si punta ad una neutralità elegante e ad una sciarpa da poter facilmente,
all’occorrenza, dimenticare nel SUV.

Mi ero trovata così a via Poseidonia nelle ore precedenti una delle partite fondamentali per la salvezza. La Salernitana poteva restare in B, ma stava rischiando la retrocessione. Si erano accumulati debiti, problemi societari, la squadra non era coesa.

La posta in palio era troppo alta, gli avventori di un baretto si dividevano tra chi non si sbilancia – i veri amatori appassionati – e quelli meno coinvolti, che cercavano di sbottonare un qualche commento ai primi, fingendo una certa ironia, un cauto disincanto. Quasi tutti hanno copie della Gazzetta o del Corriere dello Sport che sfogliavano con pesantezza, ali di carta che faticavano a spiccare il volo.

“Allora Giuà, c’emma crer’?” un tarchiato moro con occhialone da sole e tatuaggi marini sugli stinchi si rivolge a Giovanni, detto Giuà. Giuà non è interessato, ma finge.

“Ci dobbiamo dare una mossa!”, un terzo, che dice poi al proprietario in cassa, mentre sfoglia euro metallici tra pollice e indice dopo aver agguantato spicci dalla tasca del jeans: “Paga pure a Nicola e al Presidente”. Giovanni, che abbiamo scoperto essere un Presidente, sente che gli si sta offrendo il caffè, e torna su questo pianeta. Con fare offeso: “Antonio ti prego, lascia stare!”

“Presidente ci mancherebbe, ma dicci qualcosa, oggi che succede?”.

Il Presidente scuote la testa, sbuffa, quasi raglia. Immagino debba presiedere non uno dei club di zona, ma una qualche associazione misterica di iniziati e che per esprimere un suo vaticinio serva ben altro che un caffè. Io intanto ho preso il mio, metà bustina di zucchero, e rimango all’esterno, addossata al muro, sto aspettando Marika che arrivi in zona per andare dall’estetista e mi arrivano gli echi del sapere da stadio, della tensione e delle energie che ciascuno mette nella partita che quel sabato avrebbe potuto decidere l’umore di una città.

“Qualunque cosa tu devi dire, è chiaro che io già mi dissocio”, ancora Nicola, il tarchiato con occhialone, i tatuaggi percorrono cosce, malleoli, ancore, onde, barchettine stilizzate, che stuzzica il Presidente e si accende una sigaretta poco distante da me.

“Il problema è la società”

“Il problema è la dirigenza”

“Il problema è il gruppo squadra”.

“La difficoltà della Salernitana è nel centrocampo!”

All’improvviso mi accorgo che un nugolo di uomini, ragazzi, giovani e meno giovani, hanno da dire qualcosa, solo il Presidente continua ancora a tacere. Il tempo è sospeso. L’umanità che si sta avvicinando lancia un’onda emotiva che mi attraversa. Arrivano due ragazze bellissime, alte, jeans stretti e maglietta granata corta, cappellino sportivo con visiera con una grande S in bella vista e dal
quale scendono liscissimi, stanchi, senza vita, lunghi capelli miele. Ognuna delle due ha un cavalluccio disegnato con la matita per le labbra bordeaux su una guancia. Le labbra sono i canotti al botox per questo mare improvvisato: il volto popolato di ippocampi. Vorrei chiedere a queste ragazze se sanno come mai il simbolo della Salernitana sia proprio il cavalluccio marino. Mi direbbero, per il mare. Perché allora non la foca, il pellicano, la spigola. Spiegherei che era stato l’artista Giuseppe d’Alma a disegnare e proporre questo simbolo, dopo aver visto impigliato in una rete dei pescatori un cavalluccio. Sorriderebbero andando via, pensando appena alla mia pedanteria, alla mia ricerca della verità. Se ne andrebbero lontane felici ed esaltate nella loro rassicurante ignoranza. Il Presidente le vede arrivare dall’interno o sente il loro vociare leggero e divertito, solo a quel punto esce dal bar e si mette in marcia. L’odore di femmine, smuove il suo silenzioso riserbo. Io resto. Lo segue tutta la varia umanità, Nicola, che non toglie gli occhiali da sole neppure quando dorme, Antonio, che ha perso il conto di quanti caffè ha pagato da stamattina e quanti ancora ne dovrà pagare, e tutti quanti pensano che le prossime due o tre ore possano variare le sorti della loro coscienza, cambiare l’apatia in vita, il nulla col tutto, il vuoto col pieno. Il risultato esteriore di un gioco, si riverbererà nelle proprie esistenze. Si potrà portare un sorriso a casa laddove c’è solo pianto, si potrà essere amareggiati in attesa di consolazione. Il Presidente andrà a bere una birra con le donne miele che, se la Salernitana perde, si toglieranno i cappellini, in luttuoso rispetto. Io mi avvio perché Marika fa tardi. Pago il mio caffè e una bottiglina di acqua naturale, a me Antonio non ha offerto nulla. L’energia del tifo rimane ancora nel piccolo bar scuro e angusto di via Poseidonia, una strada dove la luce del Sole, che è una stella, non giunge mai a terra, schermata dalla dura fissità del cemento. Non saprò se la Salernitana ha vinto o ha perso, non chiederò, non cercherò, e mi va bene così. Lascio questo sapere sibillino appannaggio dei quartieri.

Anna Lisa Vitolo

Laureata in Lettere, Filologia, Storia dell’Arte, ha un Dottorato di ricerca italo-francese e ha svolto i suoi studi sul rapporto testo-immagine di manoscritti medievali tra Firenze, Parigi e Poitiers. Dopo alcuni anni impegnata nell’organizzazione di eventi culturali e come guida turistica, oggi insegna italiano nella scuola Secondaria di II grado.

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