Globalizzazione: grande abbaglio del passato, sarà anche una condanna per il futuro dell’Occidente?

Le catene del valore si sono accorciate, i governi tornano a parlare di autonomia strategica e si riaffaccia l’idea di “interesse nazionale” anche in economia. Ma cosa dobbiamo aspettarci?

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Chi negli anni ’90 lavorava nel marketing industriale, ricorda bene l’attesa entusiasta per l’apertura dei mercati. La globalizzazione ci fu presentata come l’alchimia perfetta: nuovi mercati, delocalizzazione produttiva, crescita internazionale e pacificazione totale tra i blocchi politici…

A metà degli anni ‘90 tutta la classe dirigente italiana – centro, sinistra e destra- abbracciò l’ideologia globalista. C’era l’urgenza di entrare nell’Euro e modernizzare il Paese, l’Italietta della Lira era sull’orlo del baratro: alle banche si pagavano interessi al 27%, fuori dal serpentone monetario in una notte il Marco passò da 740 lire a 960 lire e Amato fece la manovra da 90.000 mld di lire: eravamo in un vero Terzo Mondo finanziario… e ancora oggi c’è chi vagheggia quei bei tempi di debiti à gogo.

In Italia ricordo una sola voce dubbia sulla totale bontà della globalizzazione, quella di Giulio Tremonti… Era fautore di una globalizzazione programmata, a Roma assistetti a una sua relazione e qualche dubbio mi assalì. La sintesi del suo pensiero fu più o meno: “…in Occidente la globalizzazione senza regole  provocherà una profonda deindustrializzazionecon l’aggravante che esporteremo altrove nostro know how secolare… le aziende licenzieranno operai specializzati che non saranno reimpiegati… molte aziende costituiranno fondi finanziari per collocare il surplus capitalizzato e nascosto dove converrà di più…

Dalla stampa fu trattato da Cassandra inascoltata, e tra gli industriali – proprio l’emblema mondiale del made in Italy – i nostri stilisti di punta immediatamente andarono a produrre altrove per poi rivendere in Europa allo stesso caro prezzo di prima… Tremonti aveva intuito le conseguenze future e oggi, a deindustrializzazione avvenuta, molti economisti ammettono che la globalizzazione sfrenata, non governata da una politica economica, sia stato un enorme abbaglio.

Oggi sacramentare contro la Globalizzazione è diventato il vessillo della Destra internazionale (ma nessuno si oppose in quegli anni, anzi!), e i dati parlano chiaro: essa ha contribuito in venti anni a creare 600 mln di posti di lavoro in Asia e l’Occidente ha subito un forte declino del manifatturiero. Tra il 1990 e il 2010 sia negli USA che in UE, la quota del manufacturing nel PIL è scesa notevolmente, dovuta alla delocalizzazione verso paesi con basso costo del lavoro (in particolare la Cina) e all’automazione spinta. In pratica, molti Paesi occidentali si sono trovati senza produttività, senza lavoro industriale retribuito e gli effetti sociali si sono riflessi in povertà, riduzione della mobilità e soprattutto scontento politico.

Un esempio emblematico è quello dell’industria automobilistica, simbolo dell’economia produttiva occidentale. Negli ultimi anni, sia in Europa che negli Stati Uniti, i colossi dell’auto – soprattutto Volkswagen pioniera della globalizzazione, ma anche Stellantis, Ford e GM – si sono trovati a rallentare o addirittura fermare la produzione per la mancanza di componentistica minore, come semiconduttori, batterie, cavi, cablatori, materiali troppo banali da fare in occidente… ma prodotti quasi del tutto in Cina o in Paesi sotto il suo controllo commerciale: l’Occidente ha perso – chiosando Lollobrigida- la Sovranità industriale delle sue filiere.

Non si può avere un’economia senza controllo sulla produzione industriale.

In Europa, il fenomeno è stato più contenuto, ma comunque significativo: anche Paesi come l’Italia e la Francia hanno visto un calo del peso del manifatturiero nel PIL, con intere filiere trasferite in Asia e un indebolimento della competenza industriale di medio livello.

La Cina, nel frattempo, ha costruito il proprio miracolo: non solo ha assorbito una parte enorme della produzione globale, ma l’ha fatto strategicamente. Ha concentrato ricerca, sviluppo e produzione su componenti essenziali: pannelli solari, chip, terre rare, batterie, cavi, software specifici.

Nel 2024, il 29% della manifattura globale è cinese. Il programma “Made in China 2025” ha come obiettivo esplicito la leadership globale in settori chiave. Il caso dell’auto è emblematico: in pochi anni, Pechino è passata da subfornitore a esportatore netto di veicoli elettrici e oggi sfida apertamente le industrie europee e americane sul prezzo, sull’efficienza e sulla scala.

La Cina ha progettato in trent’anni potere industriale e finanziario, e oggi ci rendiamo conto che le auto elettriche che ci propongono anche di rinomati marchi occidentali -la sovrastimata Tesla Model 3 su tutte – sono fatte a immagine e somiglianza della Cina… In Occidente, per mantenere standard di vita accettabili in un contesto di ridotta competitività industriale, si è fatto ricorso al debito. Stati Uniti ed Europa hanno spinto su stimoli monetari e fiscali, ma senza risolvere il nodo della dipendenza produttiva.

In Italia, il PNRR ha provato a invertire la rotta, ma con strumenti ancora troppo fragili. In Francia, la protesta sociale ha segnalato i limiti del modello sociale post-globalizzazione: molte promesse, pochi mezzi. Negli USA, il dualismo tra le coste digitali e l’interno post-industriale è diventato una faglia politica… e qualcuno si aspetta un terremoto, prima o poi.

Sul piano politico la comunicazione occidentale è stata debole. Si parla di difesa, transizione, sicurezza tecnologica, ma due dati su tutti restano evidenti: Se i posti di lavoro industriali sono spariti, i nuovi posti nel digitale non sono sufficienti per colmare il gap. Senza produzioni proprie, la democrazia occidentale resta subalterna agli input esteri.

Ed eccoci alla politica ed ai mali di pancia dell’Europa: Questa è la motivazione per spiegare il ritorno di una Destra internazionale che predica sovranismo, controllo e ritorno alla produzione nazionale. Da Trump a Meloni, da Le Pen a Orban, il messaggio è: Riprendiamoci il controllo! Ma di cosa? Mancano gli strumenti per raggiungere l’obiettivo e forse mancano addirittura gli imprenditori diventati oggi buona parte finanzieri.

Cosa ci aspetta nell’immediato futuro?

Le catene del valore si sono accorciate, i governi tornano a parlare di autonomia strategica e si riaffaccia l’idea di “interesse nazionale” anche in economia. Ma questo interesse non si risolve con titoli di ministeri come sovranità alimentare, merito, natalità, made in Italy, o mettendo asini fedeli a capo di ministeri e aziende controllate.

Trump fa scuola anche in questo ma vediamo giorno per giorno cosa accade con i suoi asini: il suo capo della Sicurezza Nazionale non sapeva  cosa fosse l’habeas corpus, il commissario per la sicurezza sociale non sapeva che tra i suoi c’era un commissario per la previdenza sociale, il capo del Dipartimento della Difesa -ubriaco- gli manda piani fantasiosi di guerra per invadere Groenlandia e Canada… e il tizio scelto per guidare una squadra di prevenzione del terrorismo è un ex commesso di alimentari con zero esperienza governativa… 

Questa Destra deve convincersi che un asino fedele non vale un manager istruito; non ci si può chiudere al mondo del “Sapere come si fa”, si tratta di capire piuttosto quali pezzi del sistema devono tornare sotto controllo democratico, a partire dalla capacità industriale manifatturiera che i fatti di questo quarto di millennio hanno dimostrato essere più strategica dell’industria delle armi.

Senza questo ritorno alla realtà, l’abbaglio della globalizzazione non sarà solo un errore del passato, ma una condanna per il futuro.

Carlo De Sio

Laureato in Scienze Politiche ed Economiche, con Master in Psicologia sociale e P.R, ha lavorato nella Comunicazione d’impresa e nelle Relazioni Pubbliche per oltre 40 anni. Ha fatto parte dei direttivi di Organismi nazionali quali ACPI-Milano, FERPI-Milano e Confindustria. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1999.
Fa parte di un gruppo di specialisti per la revisione di testi generati dall’I.A. e partecipa nel Deep Web a un gruppo di approfondimento che ha come focus notizie e valutazioni sulle crisi politiche in atto.

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