Carlo Di Legge (Salerno 1948) è laureato in materie letterarie (1979) e filosofia (1992) presso l’Università di Salerno, ha insegnato filosofia e storia nei Licei e collaborato in all’Università di Salerno (filosofia del linguaggio, estetica). Ha terminato la carriera come dirigente in un liceo italiano.
Ha pubblicato saggi filosofici e testi di poesia. Tra questi uiltimi, la plaquette Momenti d’amore (Angri, 2002) e i libri Il candore e il vento (Napoli, 2008) e Multiverso (Alessandria, 2018), Buenos Aires, Benares (Avellino, 2024).
La maggior parte delle poesie, fino al 2018, sono sul www.orientexpress.na.it; sue poesie sono state poi pubblicate, sempre online, su Atelier, Levania, Frequenze Poetiche, Poetarum Silva, Versante Ripido, formafluens e altri blog o siti di poesia.
Ha organizzato, da solo o con altri, rassegne di poesia. L’ultima, in attesa di settima edizione, “I poeti al Borgo di Nocera Inferiore”.
Buenos Aires, Benares
Venivano fuori all’imbrunire, il clochard sotto il
solito portoncino, e la donna bionda con i bambini,
passavano la notte
sul marciapiede di Corrientes, davanti alla Farmacity
non ancora chiusa.
Questo adesso, che avrei chiamato futuro, come può essere,
e quel tempo, era agosto, ma come poteva.
A due passi c’erano le milonghe del centro e i turisti,
ero uno di loro, in vacaciones de tango.
Le pire a Benares, bruciano i morti, e a quel tempo
le cappelle con le bare, alla Recoleta
di Buenos Aires.
Sulle vie che uso,
qui
si scaraventano le onde silenziose e discontinue del tempo.
E sempre mi stupiscono: il cosiddetto amore,
l’ignoto nella mia ombra, o di chi chiamo simile,
e condivido ogni sorte,
intendo la mansuetudine e i dubbi del giusto,
sto con i corpi profanati o venduti.
Sono quell’uomo braccato, allora come ora,
è il mattino della partenza,
ho un bambino in braccio, chiedo medicine.
Eneide, VI, 136 sgg.
Al mio amico
Su questa sponda del mare, mi rammenti,
l’illusione ottica può mostrare
le montagne invisibili della terra opposta
come fossero qui.
Poi l’atmosfera ridiventa limpida.
Qui si cammina. Su strade sospese,
che il vento porta via. E nella selva –
che dietro me sprofonda –
cerco il ramo d’oro che consenta di tornare.
Mi dico: fa’, come detta la Sibilla,
che il ramo sia con te senza pretenderlo.
Non puoi averlo per sempre, il tesoro
dalle foglie lucenti. Ma – questo puoi fare,
un istante sia tenda sul mare.
Semi d’acero
Nei giorni scorsi ho trovato un seme d’acero,
poi altri due, quasi invisibili,
proprio davanti alla porta. Li ho raccolti, ho ascoltato –
non domandano cibo né bevanda, possono dormire
ovunque nell’inverno.
Non come gli stranieri che vennero alla tenda di Abramo,
senza farsi riconoscere:
questi non hanno ali d’angelo ma vele,
ogni seme è incastonato come uno scafo
dal suono lieve, secco e legnoso
dentro la sottile cartilagine color avorio,
ovale oblunga, progettata per il volo.
Eppure ora sono con me, e domando loro: da dove venite,
portati dal vento –
dagli alberi qui oltre i cortili o forse da più lontano?
Dicono: noi siamo il messaggero e il messaggio,
siamo il piccolo e il grande, causa e probabilità
di rami, foglie e frutti, e altri semi, nutrimento, ombra
e conforto, e nuovi alberi.
Dicono: noi siamo
la fortuna e l’accoglienza, siamo separarsi e
partire, la speranza, i compagni perduti nel cammino,
siamo il nuovo inizio.
Domando quale artigiano sappia fare questo, la forma esatta
e singolare,
le diverse qualità, il tempo dato: ma dicono –
tu d’improvviso vedi
germogliare piante diverse, ognuna un suo carattere,
dove nessuno le aveva messe.
Domando di crescita e cambiamento, il senso della solitudine
e dell’essere insieme,
del viaggiare e dello stare fermi nel luogo.
Accogli le immagini, ospita le immagini,
dicono,
ciò che sembra insignificante può essere il più importante,
come quei messaggeri che il Signore mandò ad Abramo.
Luglio 2017
Oggi, domenica pomeriggio, la passo in colloquio
con il mio poeta messicano,
che a sua volta parla con John Cage: “Silencio es musica,
musica no es silencio”, e poi: “Nirvana es samsara,
samsara no es nirvana”. Non basta:
per una di quelle strane coincidenze
che abbiamo sott’occhio senza farci caso,
un amico, che ogni tanto si fa vivo, mi manda una lettura
di “Itaca” di Kavafis, e aggiunge una musica greca.
Pensando alle sincronie del mondo,
continuo ad imbattermi nel mio poeta:
“Anima mundi”, “el presente es perpetuo” –
sopraffatto dalle citazioni, risalgo a prepararmi un caffè
e mi trovo nel fresco insolito (è luglio) della giornata,
nella luce scolpita dei colori della montagna e del cielo.
Un pomeriggio, penso, si dissolve in incalcolabili caratteri
di pomeriggio, diventa segno, e così la vita.
Ho domande, non so cosa fare,
in me, da non so dove, un avviso:
cielo sopra, montagna sotto (tutto comincia
a mettersi insieme). Adesso la percezione
della montagna e del cielo sta spostandosi, si fa parte
in quell’antico paradosso che ho qui,
in casa: è sul tavolo, immobile come una cosa qualunque,
il “Libro dei mutamenti”, il Libro che non sta mai fermo.
No, mi vedo quasi scuotere il capo, non è
un mondo per lo spirito, o resta indeciso, che lo sia.
Ma un po’ più tardi vado al Libro,
e leggo al segno “Cielo sopra, montagna sotto: la ritirata.
Riuscita. Nel piccolo è propizia suprema
offerta”. E il mese, dice il Libro, è adesso: luglio.
Pseudo-Aristotele
Se aumento dev’essere,
come e cosa potresti,
che già non abbia.
Così la perdita.
L’ancòra si conserva nel non più.
Nell’inventario,
accanto a quel che sei,
ondeggia e vibra l’esile cortina
ad altro tempo presente,
che si mostra per indizio o cenno.
Infinito chi non sei, cosa non hai
come remote stanze
di libri mai letti che attendono.
Una potenza si attiva, o potrebbe,
oppure cade –
lo diresti l’αὐτόμᾰτον,
lo stesso che persuade
ogni forma a migrare in altra forma.
Dire causa non basta.
Confusa danza, verità.
Hai già quel che non hai, fuochi
scuri del non ancòra o del mai.
Ma dove, l’ora e il questo qui.
(da Buenos Aires, Benares, Delta3 edizioni, 2024)