Rileggere, meglio ancora rileggersi, aiuta a comprendere, a chiarire l’azione che il tempo opera su ciascuno di noi. Sono trascorsi anni, tanti, dalla primavera del 1993 data della pubblicazione, per i tipi delle edizioni 10/17, del mio L’ansa della luna. Salerno e la costa di Amalfi nell’immaginario del Novecento, presentato ad Amalfi in occasione delle manifestazioni organizzate nell’ambito della Regata delle Antiche Repubbliche Marinare. Un libro con il quale avviavo un sistematico studio del moderno tour, vale a dire gli artisti e gli scrittori della cultura internazionale del XX secolo, sulla Divina Costa. Questo dopo la pubblicazione di La Costa di Amalfi di Maurits Cornelis Escher (1923-1934) apparso nel febbraio dello stesso anno.
L’ansa assume un significato particolare che ora, a distanza di tre decenni, riesco a distinguere con maggiore chiarezza: esso segna il passaggio, da una storiografica dell’arte contemporanea, segnata da un’analisi dei documenti e delle opere, ad una riflessione introspettiva. È stato così che gli studi sui viaggiatori, sui loro soggiorni nell’Italia ‘moderna’, hanno assunto la cifra di una geografia personale che ho trasformato in itinerari, tappe, a volte scelte, che hanno segnato profondamente un lungo ed intenso periodo di studio: una ricerca che, in Terrazze al sole. Il paesaggio e la vita italiana nella pittura dei viaggiatori del XX secolo pubblicato da Liguori nel 2019, ha trovato un punto di coagulo tra la ‘visione’ e ‘l’emozione’.
Mi capitava spesso, da bambino, nelle prime sere di dicembre – scrivevo nella introduzione a L’ansa – quando il freddo pulisce l’aria e la rende tersa allo sguardo, sostare davanti ai vetri e scrutare Salerno immersa nel buio. Da quella stanza sospesa nel cielo potevo ammirare come l’intero golfo, brulicante sui bordi di luci, disegnasse, nella cornice della finestra, una sottile striscia di luna. Verso destra la silhouette si allungava fino a raggiungere la luce intermittente del faro di Capo d’Orso, che ritagliava sul fondo scuro i neri contorni dei monti adagiati sul mare; verso sinistra v’era già una miriade di «fìammelle» che, l’una dopo l’altra, accompagnavano l’occhio sino ad Agropoli ed oltre. Un quarto di luna era sdraiato ai miei piedi, col silenzioso viavai notturno, ritmato dai piccoli e striduli rumori che animavano i lenti gesti delle gru sulle banchine del vecchio molo. Alitavo sul vetro per far sì che un panno nascondesse l’immagine della città, lasciando trasparire la sagoma gialla. Poi, con il dito, seguivo il bordo; da destra a sinistra, ricalcando l’ansa panciuta che da Vietri si incurva nella luminaria del porto salernitano, poi del lungomare, incominciando a stringersi dalla foce del Picentino, fino a perdersi nel lumicino estremo di Punta Licosa, sospeso nel blu intenso e nero della notte.
La Luna restava sul vetro per pochi secondi; come un misterioso dipinto sostava sulla superficie per svelare di lì a poco l’immagine della città col suo fremere di bagliori elettrici. Quell’ansa di luna si estendeva, nella mia fantasia, ben oltre lo sguardo, sino a toccare le coste a strapiombo dell’isola di Capri: essa racchiudeva la bellezza dei racconti di mia madre che, con vanto, narrava della sua gioventù, di luoghi ove il vento muove l’aria calda, di campanili che spandono nelle gole odorose di limoni il suono della fede, di pietrose spiagge assolate gremite da cosmopoliti gesti e di notti che custodiscono segreti amori. Narrava le storie di ulteriori e misteriosi viaggi, di figure, di lunghe ed interminabili estati. Quella striscia di terra acquistava, così, un nuovo profilo, diveniva un territorio magico, fatto di poeti, di amanti, di pittori, di vele che bordeggiano nelle prime ore pomeridiane il respiro di un Ponente che increspa da Capri il mare. L’ansa della luna è il diario di un ulteriore viaggio; un itinerario tra le rotte di altri ‘viaggi’, nei segmenti della letteratura, nelle tele tra le forme e i ridenti colori delle esperienze che hanno animato il nostro bizzarro ed amaro secolo. Non ha la pretesa, e non era nelle mie intenzioni, di voler essere storia del «viaggio contemporaneo» nel golfo delle Sirene; di questo ne sono convinti anche gli amici Ugo Marano e Sigimondo Nastri che mi sono stati vicini nel vagabondare tra i documenti, le opere, i fatti narrati dai segni del tempo. Racconti che intrecciano, tra loro, le storie di uomini, le idee che riflettono il clima di un’Europa inquieta, perversa, esplosiva, pervasa da contraddizioni ideologiche, da regimi, da guerre, da miti. Tra i miti v’è anche l’incanto e la bellezza di questo golfo lunato, per molti un’isola di pace, lontano territorio dei sensi ove potersi nascondere, forse, dall’insidia della modernità: uno «spazio» incontaminato ove regnava il silenzio della natura. Resta nei miei sogni il contorno di quella luna disegnata sul vetro, di una memoria legata ad un «mito» lontano che oggi è nel nostro essere. È la sottile striscia di luna che di notte torna a popolare il nostro immaginario.
Nelle pagine del Carnet di appunti, annotati tra il 1942 e il 1948, Marguerite Yourcenar scrive: «Tutte le luci spente: quelle dei piroscafi come quelle delle strade, i lumi da notte dei malati come i ceri da chiesa. E le lampade, le poche, che ancora bruciano, tremano di paura all’orizzonte. In questo buio totale, dove per noi si tratta di morire il meno possibile, ritrovare a tentoni, umilmente, la forma delle cose eterne sarà il nostro compito». Non potevo aver migliori compagne di viaggio che queste frasi; è la coscienza di chi ha reso la sua vita un continuo peregrinare nella memoria collettiva, nell’universo sconfinato della storia, delle leggende, dei libri, delle immagini trattenute dalla superficie della tela o da ingialliti fogli colorati dalla polvere. L’essenza delle cose sembra non smuovere più l’interesse dell’uomo, oramai giunto alle soglie del Terzo Millennio. Le parole della Yourcenar hanno mobilitato il mio animo nell’estate dello scorso anno, quando, quasi per una inaspettata coincidenza e mentre osservato le deboli linee colorate di quella piccola veduta di Salerno, dipinta dal pittore romano Facchini nel 1908, ripensavo ad André Gide, al suo breve soggiorno nelle terre salernitane, nell’autunno del 1895. L’ansa della città raffigurata dal pittore romano appare ancora più in ombra a causa dell’incupirsi dei colori, dei toni delle terre: la città è solcata da una striscia di luce rosa, sensuale, ammiccante che avvolge le case in una sorta di magica atmosfera. È il raggio di sole che filtra dalle nubi sul quale anche, negli anni, renderanno celebre il golfo delle Sirene: Salerno e la Costa Amalfitana non sono più le tappe di un viaggio, bensì la meta, le terre di un incantevole senso primitivo, arcaico, un luogo che stimola la fantasia di molti scrittori della moderna Europa.
Prende corpo, così, una sorta di triangolo i cui vertici sono rappresentati da Capri, Positano ed Amalfi, la cui area è attraversata da infuocate menti di letterati, di scrittori, di poeti e di artisti attratti dalla bellezza selvaggia della natura che, come una sorta di specchio, permette il libero fluire delle forze dell’inconscio. artista ha concentrato la sua attenzione: quella città sembra essere stata dipinta dalle parole di Gide, uno scorcio rapido, senza dettagli ma pronto ad aprire ad una nuova ed irripetibile avventura. È Gide dell’ Immoraliste a narrare, in chiave autobiografica, quei quindici giorni di una stagione indimenticabile, che lo porta nelle terre salernitane, attraversando con lo sguardo Paestum e Salerno, fino a giungere in quei luoghi, a Ravello, ove l’aria è pungente e la «seduzione delle rocce piene di anfratti e sorprese», e la «profondità misteriosa dei precipizi» annota lo scrittore «favorirono nuovi slanci».
L’ansa del golfo salernitano è stata sin dal secolo dei Lumi meta di viaggio; dapprima è la seducente bellezza del paesaggio ad attrarre la curiosità; poi sono le vestigie di antichi splendori, l’insula estrema della cultura greca racchiusa nelle rovine di Paestum a spingere i nuovi viaggiatori oltre l’incanto cosmopolita di Napoli.