Rippa, l’altro radicale alle frontiere della libertà

Rileggendo, dopo cinque anni, il libro-intervista (a cura di Luigi Rintallo) del direttore di Quaderni Radicali, frutto delle intense esperienze personali vissute dall'autore nel corso di decenni di attività politica e culturale. Un'opera attualissima che scruta nell'attesa infinita della restituzione della democrazia agli italiani e indaga sulle dinamiche della società contemporanea, segnata da una opprimente economia liberista e da allarmanti sviluppi consumistici della nostra (ormai) post-democrazia

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I lettori abituali, d’estate, può accadere che diventino bulimici, specie quando, per i motivi più vari, si sottraggono al rito delle vacanze imposte dalle convenzioni, quelle che ci intruppano in porti, aeroporti o presso i caselli autostradali. Questi giorni dei solitari resistenti al viaggio favoriscono scoperte o ri-scoperte da scrivania, nel senso che forniscono argomenti e tesi per costruzioni di mappe mentali, riallineamenti di storie, analisi e approfondimenti, senza che ad imporli sia il dovere di leggere o comprendere, con il solito fine di recensire, discutere, proporre tesi in pubblico. Mi è accaduto così che lo sguardo, qualche giorno fa, sia caduto su un settore affollato e caotico di una delle mie librerie, nella quale avevo giorni fa sistemato alla men peggio alcuni volumi acquistati di recente, custoditi con il proposito di leggerli quanto prima. Sono i ripiani dei testi politici e delle riviste di area, che non prediligo da tempo, ma che continuo ad aggiornare per quanto possibile. Proprio dietro i volumi di più recente acquisto –  il libro XVII dei Seminari di Jacques Lacan, un’opera dell’anno accademico 1969-70 dedicata dal grande pensatore al “discorso del padrone”, quindi alla teoria del potere, esatto rovescio del discorso della psicoanalisi, e una recente proposta di Carlo Galli sul controverso tema de “La destra al potere / Rischi per la democrazia” – mi si è parata davanti agli occhi un’opera che mi colpì particolarmente. L’autore è l’amico Geppy Rippa, in anni lontani segretario del Partito radicale e da sempre direttore di Quaderni Radicali. Con autorevoli relatori – da Stefano Folli a Paolo Brogi, a Paolo Macry, a Biagio de Giovanni, a Silvio Pergameno – presentai quel libro a Roma, a Napoli e a Salerno, con una condivisione dei contenuti che solo in rare occasioni ha segnato la mia attività di recensore. Ho riletto così interi capitoli, sorprendendomi per le annotazioni fittissime sui margini delle pagine, dalle quali emergeva la mia inquietudine per l’attesa infinita della restituzione della democrazia agli italiani e le preoccupanti dinamiche della società contemporanea, segnata da una opprimente economia liberista. Queste ultime sono, peraltro, le molle intellettuali che hanno indotto Carlo Galli a scrivere il suo recente libro che leggerò quanto prima, ma quei temi – allineati con intelligenza e acume critico – li ho ritrovati, a distanza di cinque anni, nel testo di Rippa “l’altro Radicale”, il libro-intervista (a cura di Luigi Rintallo), frutto delle intense esperienze personali vissute dal protagonista nel corso di decenni di attività politica e culturale. Un’opera attualissima che, a mio parere, va approfondita in rapporto al precedente lavoro dato alle stampe da Geppy nel 2015, Alle frontiere della libertà (Rubbettino). Quel testo si concludeva, secondo me in modo un po’ sconsolato per un liberale autentico, coerente e, quindi, “senza aggettivi”, qual è l’autore. La constatazione del prolungamento della stagione negata dei diritti, che ancora tardano ad essere accolti nel novero delle esigenze imprescindibili della democrazia, aveva portato Rippa ad auspicare, in quel denso e provocatorio libro-manifesto, un Tribunale internazionale dei diritti. Auspicio che mi meravigliò non poco (e le mie annotazioni lo segnalano), perché  la necessità di una giurisdizione regolatrice della vita democratica e il conseguente lavoro ritenuto imprescindibile delle Corti, che potrebbero sottrarre spazi di agibilità alla politica, mi sembravano poco in linea con le tesi formulate da un personaggio complesso come Rippa, che non aveva mai, prima di tale affermazione, lasciato intravedere, stante la grave crisi contemporanea, un potere e una funzione in qualche modo sostitutivi dell’attività politica.

Geppy Rippa, direttore di Quaderni Radicali e autore del libro “l’altro Radicale”

In seguito, ne ho compreso le motivazioni profonde, derivanti proprio dalla presa d’atto che la politica è ormai ridotta, nel tempo della globalizzazione, ad astrazione analitica, a una oggettività generica, incongruente e poco comprensibile. Dunque, il percorso dei diritti civili, sospinti dalla necessità di farli accogliere dalla comunità e dal dibattito politico, secondo me, diventa l’elemento nevralgico, il cuore di questo libro, così come acutamente osserva Silvio Pergameno nell’introduzione, quando evoca i contenuti che non riescono a entrare nella forma-partito. Una impossibilità che costituisce il filo di fondo del libro e dà vita a qualche rimpianto, qua e là affiorante nel racconto del direttore di “Quaderni Radicali”.

Con “l’altro Radicale”, Rippa compie tuttavia un passo in avanti, perché si fa carico della “impossibilità” alla quale fa riferimento Pergameno, prospettando una ipotesi di percorso finalizzato ad un eventuale progetto politico o, perlomeno, alla descrizione di pre-condizioni finalizzate alla sua definizione. Siamo, perciò, ben oltre i temi connaturali alla ricerca dell’autore e costantemente affrontati attraverso QR (Quaderni Radicali) e una intensissima attività saggistica. Compare, cioè, il tentativo di recuperare un territorio politico nel quale inserire e far interagire con l’esistente i diritti umani e civili divenuti friabili o costantemente violati. Questo laboratorio di cultura radicale può diventare, ritengo, un disegno politico. Lo deduco soprattutto da alcuni cenni autobiografici ricostruiti nel testo ed anche dalla consapevolezza, che è il cardine della ricerca di Geppy Rippa, che siamo storicamente in un periodo di grandi riequilibri mondiali, di generali e diffusi assestamenti, di fronte ai quali non possiamo subire la storia, ma dobbiamo attrezzarci per connotarla con la nostra azione e la nostra sensibilità.

La legge era il fine

delle battaglie radicali

Le battaglie per i diritti così formulate non mi meravigliano, perché costituiscono una costante per i radicali. Ogni loro iniziativa ha sempre avuto come fine la legge. Divorzio, aborto, obiezione di coscienza non sono state mai battaglie pre-politiche come quelle di altri movimenti affacciatici nel tempo dal balcone del governo, ma grandi flussi di opinione tendenti a rimodulare le norme rispetto alla nuova sensibilità pubblica e a una rinnovata cultura e coscienza civile. In questo senso parlerei, più che di battaglie per i diritti, di battaglie per il Diritto. Senza una chiara visione del Diritto, infatti, non è possibile tutelare i singoli diritti con metodo e intelligenza liberale. Per farlo, però, occorrerà porsi il problema della sovranità della legge, considerare cioè lo spazio e l’agire della giurisdizione nella democrazia rappresentativa. Il discorso, a questo punto, si complica, perché dovremmo considerare i danni determinati dalla cosiddetta Costituzione materiale, cioè dalle innovazioni che maggioranze temporanee o movimenti aggressivi hanno determinato, provocando profondi scossoni nell’attività legislativa. È prevalso, infatti, un primato interventivo della politica, rispetto a quello regolativo, che piace certamente di più a Rippa e a tutti i liberali autentici. Una politica, cioè, in grado di porre regole certe con fini universalistici, lontani dalle tutele corporative a dir poco ricorrenti nei lunghi anni di democrazia incompiuta di cui parla Pergameno. Democrazia drammaticamente incompiuta che, a differenza di altri e più evoluti percorsi democratici d’Oltralpe e d’Oltreoceano, non si è nemmeno data una “pedagogia”, non ritenendo di dover informare i cittadini sulla propria essenza, sui metodi assunti e sulle proprie finalità. Nel momento in cui si è affermata, dopo la seconda guerra mondiale, come sistema principe e indiscutibile, la nostra democrazia ha ritenuto di non dover essere più insegnata agli altri e di poter diventare un oscuro e scontato dato della contemporaneità.

Democrazia e liberalismo

sono i motori della Storia

Rippa invece ha continuato a raccontare (e insegnare) la democrazia e il liberalismo, come motori della storia e premesse imprescindibili del progresso civile, e lo ha fatto saldando la sua attività di studioso e di saggista con l’altra di politico, entrato in azione in anni lontani, quando Marco Pannella compie il capolavoro di coniugare le istanze liberali con i fermenti dei nuovi movimenti giovanili degli anni Sessanta, sospinti soprattutto dalla forte carica innovativa della gioventù americana. Il leader radicale legge quel fenomeno mondiale non in chiave antagonista ma liberale, fornendo un’alternativa alle analisi di gran parte della sinistra soprattutto estrema. Ampi orizzonti analitici e argomentativi, non v’è dubbio, ma manca un vero partito e soprattutto non compare una formazione in grado di accreditare e sostenere un disegno così fortemente identitario. Perché questa impossibilità? Perché, nonostante l’intelligente opera di Pannella, non riesce a strutturarsi un partito liberale diverso dalla micro-presenza parlamentare legata a Malagodi e ai suoi eredi, un partito cioè finalmente in grado di guardare al progresso e allo sviluppo?

Impossibilità genetica o impossibilità legata al personaggio-Pannella? Credo che questo sia un altro nodo del libro, forse non sufficientemente sciolto nella ricostruzione pur attenta e accattivante dell’autore. Rippa sostiene la visione strategica di Pannella, apprezza la sua riflessione critica, condivide la necessità di diffondere la cultura liberale che sospinge l’impegno del suo leader, ma poi – ho annotato la frase – sconsolato ammette: «Siamo consapevoli di non essere nelle condizioni per realizzare compiutamente un progetto politico, pur disponendo della voglia e della tenacia per realizzare un polo di riferimento che analizzi in chiave radicale le situazioni».

La vita politica di Rippa si muove in armonia con questa sua convinzione, deviando per lunghi periodi sul binario della ricerca, dello studio, della provocazione culturale e intellettuale. Egli si definisce “pannelliano” ma non “pannellato”, cioè non unto dal leader. E le divergenze, che esploderanno solo molto più tardi, si palesano dapprincipio con delicatezza, senza mai assumere la forma di un palese contrasto. Alla fine degli anni ’70 il Partito radicale ottiene, sull’onda del trascinamento del referendum del 1974, una rappresentanza parlamentare di tutto rispetto: diciotto deputati e due senatori. Ma Pannella è scontento, immagina uno sfondamento maggiore nell’area già sotterraneamente consociativa. Il timore di essere fagocitato dalla partitocrazia blocca il leader che si ostina a non fare il partito, anzi sembra impegnarsi a ritardarne la nascita; Pannella è per separare il gruppo in Parlamento dal partito, mentre Rippa la pensa diversamente, anche se poi nel libro giustifica in una certa misura il leader sostenendo che a lui bastavano una scrivania e un telefono per incidere nella società, quasi a confermare che la rappresentanza istituzionale non era, in fondo, per una personalità così forte e autorevole, una necessità. Fatto sta che molti radicali si allontanano, attratti dal politicantismo ma forse anche imbarazzati da un’ondivaga visione di partito, accompagnata dalla difficoltà di trasformare in un progetto politico una grande battaglia ideale.

Rippa porta a Pannella la vittoria su un piatto d’argento al congresso del 1979, dove c’era una minoranza che contestava duramente il leader. Il congresso vota Rippa alla segreteria. È il primo segretario della storia radicale non indicato da Pannella, ma non ha alcun controllo sull’amministrazione del partito, tanto che non gli spesano nemmeno i viaggi. Praticamente un segretario senza concreti poteri. Anche la tessitura dei rapporti con gli altri partiti, in particolare con i socialisti di Craxi, è un lavoro portato avanti da Rippa senza un attivo interesse di Pannella, che interviene tuttavia nelle riunioni decisive, dopo le quali i socialisti contribuiscono a far raggiungere il numero delle firme necessarie a presentare i dieci referendum del 1980.

Anche quando Rippa entra in Parlamento, pur palesandosi un più che tacito consenso dei deputati a indicarlo come capogruppo, Pannella gli preferisce Emma Bonino, affiancata da tre vice-capigruppo. Al partito, Pannella sostituisce Rippa e questo è un grande riconoscimento simbolico perché a subentrargli è il fondatore del partito, affiancato da ben tre vice-segretari. In Pannella c’è sempre questa esigenza di distribuire gli incarichi e diluirli, affinché il potere della gestione non si consolidi e soprattutto non gli sfugga dalle mani.

Un disegno identitario

che non diventa prassi

Su questo punto, anche a distanza di cinque anni dall’uscita del libro, proporrei una domanda a Rippa: perché Pannella, alla fine, non trasformerà mai in prassi politica un auspicato disegno identitario, perché non costruirà mai un vero partito, per quale motivo dimostrerà di temere un disegno compiuto di azione e strutturazione politica in una democrazia parlamentare? Probabilmente, per timore della partitocrazia, per avere mani libere nel criticarla, per censurarne la funzione negativa, additarla come il male assoluto della democrazia italiana, tesi sviluppate da Silvio Pergameno, come dicevamo, nella acuta prefazione del libro, sul filo di un’analisi sottesa dagli articoli 67 e 92 della Costituzione, vale a dire l’esplicazione dell’ufficio parlamentare senza vincolo di mandato e la pressi relativa all’articolo 92 in base alla quale il Capo dello Stato riceve invece i segretari dei partiti nelle consultazioni per la formazione del Governo. Pergameno coglie e denuncia il Grande Male partitocratico contro il quale ha combattuto Pannella. Opposta la visione del professore Biagio De Giovanni che, pur rimarcando  nella interessante post-fazione l’essenzialità della presenza dei radicali in Italia, evidenzia il ruolo decisivo dei partiti di massa che sostennero l’Italia in una lettura possibile della modernità. Da questo punto di vista, l’espressione partitocrazia sarebbe “onnivora e onnicomprensiva”. Riflessione che salva e valorizza, però, il ruolo svolto dal leader radicale per far sì che la nostra società politica diventasse più attenta ai diritti civili e alle attese liberali. Addirittura, il professor De Giovanni, analizzando in chiave dialettica il confronto Pannella-partiti politici, evidenzia la specularità delle posizioni, ciascuna funzionale all’altra: a Pannella i partiti avrebbero consentito di svolgere la serrata critica contro la partitocrazia, ai partiti le provocazioni di Pannella e la sua difesa energica dei diritti avrebbero offerto la possibilità concreta di allargare la loro rappresentanza e di rendere più moderna e più competitiva, in un confronto trans-nazionale ed europeo, la loro proposta. Pannella forzò, dice il professor De Giovanni, e se non lo avesse fatto difficilmente sarebbe emerso nella sua originalità e nel suo ruolo. La sua forzatura tendeva ad individuare l’immagine fine e pura di uno Stato di diritto, laddove nella storia del nostro paese si affollavano però commistioni non sufficientemente inquadrate tra forma e vita; tutto questo lo collocò in un luogo separato da dove seppe cogliere le contraddizioni della repubblica dei partiti, nella quale si espressero culture politiche vive della storia del Novecento.

Nonostante la centralità radicale nei dibattiti e nella storia, Pannella preferisce spazi più angusti e non osa come forse avrebbe potuto, determinando la fuga di gran parte della classe dirigente che egli stesso aveva creato, da Rippa a Taradash, a Negri, a Melega, a Vito, Spadaccia, Teodori, personalità non valorizzate o  emarginate, in qualche caso attratte dai privilegi e dalle lusinghe della partitocrazia.

Il 27° congresso radicale

fu un’occasione mancata

Si giunge in un clima rovente al 27° congresso, quello della separazione di Rippa dal partito. È il congresso nel quale Pannella perde letteralmente la testa e accusa Geppy di essere espressione di ambienti eversivi, che lo avrebbero incaricato di distruggere il Partito radicale. Pannella è un leader ma, talvolta, dalle visioni strategiche approda alla più ruvida e immotivata delegittimazione dell’avversario-amico. La differenza di vedute con Pannella riguarda, in quel momento storico, proprio la necessità, ritenuta da Rippa non più rinviabile, di costruire una base politica a sostegno della strategia radicale. Una svolta rispetto agli anni in cui, per timore della contaminazione partitocratica, anch’egli aveva condiviso la mancata presentazione delle liste radicali alle elezioni amministrative. Compare però in questo libro un velato rammarico nella scelta di non aver combattuto dall’interno una battaglia per dar vita ad un vero, autorevole e strutturato soggetto politico. «Se fossero rimasti, evitando la scissione, forse si sarebbero evitati gli esiti registrati alla morte di Pannella», afferma Geppy Rippa, riferendosi soprattutto alla partecipazione della Bonino alle Politiche con Tabacci e al ridotto tasso di cultura radicale nelle proposte di Radio Radicale.

Il leader radicale Marco Pannella

Concludendo queste brevi osservazioni, tratte dalla lettura attenta di anni fa attualizzate dalla riflessione sull’ora attuale della politica malinconica e asfittica, mi pongo un ulteriore interrogativo. C’è stata una difficoltà tattica, operativa, determinata dal leaderismo di Pannella, oppure il partito competitivo in casa radicale non è nato a causa di una debolezza storica sul piano pragmatico? La debolezza riguarda soprattutto la democrazia liberale, che ha un retroterra dottrinale non paragonabile a quello del liberalismo e può essere in un certo senso considerata un’area di sperimentazione, con dei riferimenti alla cultura americana inesportabili. La Francia l’ha attuata con un compromesso tra democratici e moderati di tradizione orleanista che determinò, grazie all’approvazione delle leggi costituzionali del 1875, la nascita della Terza Repubblica. Non viene teorizzata e si palesa, la democrazia liberale, come un compromesso, quello che consente di innestare il suffragio universale e gli istituti parlamentari sul ceppo di istituzioni elitarie. In Italia, ricorda in un studio il compianto professore Ernesto Paolozzi, se ne parlò la prima volta nel 1920, per designare uno dei gruppi parlamentari di area liberale formatosi in seguito alla riforma dei regolamenti di quell’anno, ma nel nostro paese non c’era ancora né la repubblica né il suffragio universale. Dunque non sarebbe corretto parlare di democrazia. Rippa tenta di superare le contraddizioni distinguendo tra liberalismo, liberismo e turbo capitalismo. La distinzione fra liberalismo e liberismo è tipicamente italiana, non ha un grande riscontro nelle culture mondiali, rinvia alla polemica fra Benedetto Croce e Luigi Einaudi.

Io credo che le libertà non sia possibile metterle tutte insieme: la libertà religiosa, la libertà culturale, la libertà etica… Altrimenti si corre il rischio dei marxisti: quello di individuare la struttura economica come centro di ogni rapporto sociale. E non è nemmeno detto che senza libertà economica, non vi siano le libertà; come non è vero nemmeno il contrario. Paesi di socialdemocrazia avanzata, hanno avuto grandi conquiste in termini di diritti civili, proprio quando lo Stato è entrato in azione con interventi di riforma molto ampi.

Poi, è vero, contro il capitalismo ci sono momenti di rabbia. Ma tutti i dannati della Terra, specie in questo periodo di globalizzazione, non fanno altro che chiedere di farvi ingresso. E la democratizzazione dei consumi è il titolo di nobiltà che questo turbo capitalismo espone per farne un centro di grande attrazione. Le élites liberali vedono cioè nel capitalismo la fine dei privilegi, ma i socialisti nel momento in cui si sono posti nella storia il problema di emendare il capitalismo, di riformarlo, alla fine ne hanno riaffermato il valore.

La lunghissima attesa

di un partito di massa

Ci sarà un motivo – ne parlavamo qualche anno fa nel corso di un dibattito, promosso proprio da Geppy Rippa – se in un secolo e mezzo abbiamo avuto tutti i partiti. Abbiamo avuto i partiti comunisti, socialisti, agrari, fascisti o del notabilato, ma non c’è stato mai un partito liberale di massa, inteso come partito che facesse della deregulation e del mercato l’obiettivo più importante.

Vorrei essere tranquillizzato da Rippa, perché non sarei contento se nella globalizzazione prevalessero le ragioni di pessimismo. La globalizzazione risente di tre atteggiamenti critici. C’è quello della sinistra estrema, che vede il momento attuale del capitalismo come la garanzia di interessi soltanto per alcune minoranze e un rischio enorme per milioni di diseredati, accompagnato dal rischio di travolgere le stesse nostre tradizioni liberali e riformiste. Vi è poi la destra che, con la globalizzazione, vede delegittimato l’assetto attorno al quale sono nate le civiltà. E infine ci sono gli stessi liberali, i quali – secondo me – hanno una sola strada: continuare a crederci, ragionando criticamente ed emendando. È solo questa la strada, ma è un compito difficilissimo perché i liberali hanno molti nemici: tutti i liberisti e gli estremisti di destra e di sinistra, nonché chi è liberale senza crederci sino in fondo.

Questa difficoltà non credo sia giustificabile soltanto con gli atteggiamenti ondivaghi di Pannella, con le incertezze e le indecisioni che si sono manifestate nel corso della storia recente. Temo che sia piuttosto la cifra di un movimento, quello radicale, che prima d’essere un movimento politico è un movimento di cultura, in grado di leggere il futuro con particolare lucidità rispetto ad altre letture e, tuttavia, presenta questo limite di fondo: essere minoranza proprio perché non riesce a mutuare dalla politica quei limiti che poi consentono di delineare un’azione concreta e trasformativa.

Di seguito le registrazioni delle presentazioni a Roma, Napoli e Salerno del libro di Giuseppe Rippa, “L’altro radicale”

 

Andrea Manzi

Coordinatore di RQ. È stato redattore capo de Il Mattino, fondatore e direttore del quotidiano La Città (Gruppo l’Espresso), vicedirettore del Roma, condirettore del Quotidiano del Sud. Insegna Teoria e tecniche della Comunicazione giornalistica presso l’Università di Salerno, della quale è stato consigliere d’amministrazione. Presiede “Ultimi. Associazione di legalità ODV”. Collabora alle trasmissioni culturali della notte su Raiuno. Scrive per il teatro, al suo attivo pubblicazioni poetiche, narrative e saggistiche

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