“Politica e pensiero. Storie e personaggi dei partiti del Novecento” (Marcianum Press editore) è il titolo del nuovo libro del giornalista e saggista Andrea Covotta, direttore di Rai Quirinale, un testo che ripercorre la storia del pensiero politico italiano dagli inizi del Novecento fino al 1978, anno emblematico con la morte tragica di Aldo Moro, l’elezione di Sandro Pertini al Quirinale e la particolarità dei tre “Papi”: Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Il libro è una sorta di viaggio nelle culture politiche italiane (cattolica, comunista, socialista e della destra) attraverso un ritratto dei suoi principali protagonisti. C’è, inoltre, un approfondimento sui giornali di partito: «Il Popolo», «l’Unità» e l’«Avanti». Leggendo queste pagine si entra in contatto con una narrazione di una politica diversa da quella attuale, più inclusiva, con “tessitori” capaci di ricomporre i tanti frammenti sparsi della società. Cattolici, comunisti, socialisti e laici che, dopo aver combattuto nella Resistenza, insieme scrivono la Costituzione. Nasce così quell’idea alta della politica – si legge nelle note editoriali relative all’interessante libro – come risoluzione di problemi e mediazione tra interessi diversi.
Il volume sarà presentato mercoledì’ 20 novembre all’Università di Salerno (ore 10,30, Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione, Edificio C, Aula 5), nel corso di un seminario organizzato dall’ateneo salernitano in collaborazione con il nostro magazine RQ-Resistenze Quotidiane. I lavori, introdotti ed coordinati da Andrea Manzi, direttore di RQ, prevedono gli interventi del Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche, professore Virgilio D’Antonio, e del professore Adalgiso Amendola, ordinario di Filosofia del diritto. Le conclusioni saranno affidate all’autore, Andrea Covotta, dopodiché si aprirà un confronto con studenti e docenti presenti. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo la prefazione al volume di Marco Follini e l’introduzione dell’autore Andrea Covotta. Da entrambi gli scritti emerge a chiare lettere che siamo dentro un interessante viaggio nelle culture politiche attraverso il ritratto dei suoi principali protagonisti, viaggio utilissimo soprattutto per i più giovani che non hanno vissuto quelle vicende.
PREFAZIONE
di Marco Follini
A che serve la politica? In un romanzo ingiustamente dimenticato. “Il Comunista”, Guido Morselli scriveva sul finire degli anni Settanta: “Sono sempre i politici ad aver bisogno della politica, più che la politica non abbia bisogno di loro”. Erano tempi nei quali di politica ce n’era forse anche troppa e il suo continuo debordare era oggetto, se non del nostro vituperio, almeno della nostra insofferenza. Da allora è passato mezzo secolo e oggi le cose si sono capovolte. La politica ha perso la sua influenza e il suo prestigio, l’antipolitica ha macinato applausi e consensi e noi ormai ci avviamo verso un mondo le cui sorti si decidono altrove. Diciamo che siamo passati da un eccesso all’altro, dal troppo al niente, o almeno al troppo poco. Andrea Covotta ha il merito con questo libro di gettare un ponte tra quell’Italia e questa. Ci conduce nei meandri della prima Repubblica e delle culture di allora: democristiani, comunisti, socialisti e chi più ne ha più ne metta. Sapendo già però come va a finire. E cioè fino all’esaurimento di quei filoni di pensiero che hanno dato forma alla modernizzazione del paese dopo la fine della guerra per poi arrendersi a un altro tipo di modernità. Quella nella quale, per l’appunto, abbiamo finito per immergerci. A leggere queste pagine, dense e fitte, quasi erudite, sembra di tornare ancora più indietro nel tempo. Quando bastava una parola appresa in una scuola di partito, recitata nei comizi, ripetuta nei congressi a mobilitare migliaia e migliaia di persone che da quei testi e da quelle formule traevano spunto per dare un senso alla loro vita. O almeno, a quella parte di vita che si svolgeva in pubblico. Poi d’un tratto quelle formule alchiliche, così raffinate eppure così autentiche, sono come scomparse dal nostro lessico civile. E il linguaggio della politica si è quasi scarnificato, ridotto all’osso della propaganda. Che c’era anche prima ci mancherebbe. Ma che almeno era legata ad un significato, a un’intenzione, diciamo pure a un valore. Mentre oggi sembra aver perduto tutta la fatica che la nutriva e la riempiva. Covotta sembra quasi presagire questa discesa agli inferi che avremmo poi compiuto negli anni seguenti. La descrive come un accorgimento. E cioè quello di raccontarci solo il passato, così che il presente, nella sua pochezza e nella sua apparente modernità, risalti per omissione. Egli illumina le storie, le persone, le parole del nostro primo mezzo secolo repubblicano. E lì però, si ferma. Come a voler evitare una troppa frettolosa condanna di tutto quello che è venuto dopo. Non è un racconto edulcorato, tutt’altro. E forse neppure troppo nostalgico. E’ solo il tentativo di restituirci il clima, la temperie politica e culturale di un cinquantennio che è stato anche drammatico, che è finito com’è finito, che non è si è lasciato dietro eredità troppo generose. Ma che pure ha un senso come autobiografia di tutti noi. Quelli che c’eravamo e anche quelli, venuti dopo che hanno pagato il loro debito ad antenati spesso misconosciuti. Questo tuffo nella nostra storia non deve apparirci come un tributo postumo ai nostri progenitori. Semmai come un ammonimento sui rischi che corriamo se scardiniamo la politica del pensiero, se riduciamo tutto a propaganda (o peggio a contumelia), se smarriamo il filo della nostra continuità repubblicana. Per tornare a Morselli abbiamo bisogno della politica più di quanto ne abbiano bisogno i politici. E andiamo cercando – quasi senza rendercene pienamente conto – una politica che sia fitta di riflessioni come quella che i nostri padri (e nonni, in qualche caso) ci hanno tramandato. Covotta ha il grande merito di ricordarcelo. Senza intenti troppo celebrativi e senza illusioni troppo nostalgiche. Il passato infatti è pur sempre il passato e merita che gli si paghi un tributo, come avviene in queste pagine. Ma di passato non si vive – almeno non troppo. E chi lo ripercorre in molti casi ha solo fretta di provvedere a un futuro migliore del presente che oggi ci tocca in sorte. E’ il senso, credo, di tutte queste pagine dense e pensose.
INTRODUZIONE
di Andrea Covotta
De Gasperi, Togliatti, Nenni, nomi che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese per una larga parte del Novecento. I loro eredi, Moro, Berlinguer e Craxi hanno scritto le pagine più avvincenti e allo stesso tempo più irrisolte della prima Repubblica. Questo testo ripercorre il cammino del pensiero politico cattolico, comunista e socialista che si è incrociato con quello della destra e del mondo laico. Le origini dell’impegno dei cattolici in politica, la nascita della sinistra nel nostro Paese e le tante divisioni che hanno caratterizzato quella storia, il dualismo tra le due “Chiese” quella democristiana e quella comunista, fino all’assassinio di Aldo Moro che simbolicamente mette fine ad un periodo della nostra epoca più recente. Nel volume un racconto del Novecento anche attraverso la nascita dei giornali di partito, i film, le canzoni e lo sport che insieme alla Televisione e alla Radio hanno accompagnato la vita degli italiani. Un Paese dove funzionava l’ascensore sociale e i figli dei poveri studiando, avevano la loro occasione di migliorare e di crescere economicamente. Un’Italia più mite, educata e serena che oggi ci appare lontana. Un insieme di scatti come fotografie che scivolano tra le dita e che descrivono un mondo che sembrava eterno e che invece si è decomposto. Un progresso sociale ed economico che ha garantito un futuro meno incerto a milioni di italiani che hanno creduto e si sono identificati nella politica dei partiti. Una scena pubblica dominata da idee forti che si sono contrapposte e che a volte sono apparse inconciliabili, leader diversi che, però, sono riusciti a convergere verso obiettivi comuni. Cattolici capaci di dialogare con la sinistra e con il mondo laico, dopo aver combattuto insieme nella lotta al nazifascismo, insieme scrivono la Costituzione che è il frutto dell’affinità tra forze diverse. La Carta, elaborata e scritta negli anni della ricostruzione postbellica, ha consentito agli italiani di superare le disuguaglianze e ha messo al centro la dignità dell’uomo e lo sviluppo della persona. Un filo che, come nel libro, ci riporta al pensiero, perché come ha scritto nel 1977 l’allora rettore dell’Università Cattolica Giuseppe Lazzati [1]“è a questa volontà di pensare politica prima di fare politica” che occorre sempre fare riferimento. Una strada che inevitabilmente ci conduce a quei partiti e ai leader che hanno interpretato al meglio quell’idea alta della politica come risoluzione dei problemi e di mediazione tra interessi diversi. Il pensiero politico cattolico, comunista, socialista e laico è stato riformista ed innovativo nei primi trent’anni della nostra vita repubblicana e al contrario paralizzante e autoreferenziale nella fase finale della prima Repubblica. Le luci si sono spente e si sono allungate le ombre degli scandali, i partiti radicati nella società sono entrati in crisi, è subentrata la partitocrazia, una casta autoprotetta e onnipotente, il potere ha preso il posto del pensiero, è allora che c’è stato uno svuotamento e sono nate molte forze politiche senza fondamenta. L’effimero e il contingente hanno sostituito la politica che è diventata debole e fonte di illusioni. Parafrasando l’opera lirica è una situazione che assomiglia al Rigoletto di Verdi dove per il Duca di Mantova “questa o quella per me pari sono”, così spesso si sono comportati gli elettori costretti a scegliere opzioni simili imposte da un bipolarismo quantitativo e non qualitativo. E ancora restando nella metafora lirica, il Don Giovanni di Mozart che seduce e poi disvela, così come fanno molti leader attuali. La dicotomia vecchio e nuovo, noi e loro, esclusione e non inclusione, un dibattito impoverito e urlato. Quel punto di equilibrio toccato nel dopoguerra è saltato.
La democrazia lega popolo, istituzioni e potere ma questo circuito è venuto meno quando si è spenta l’idea collettiva sostituita dall’egoismo, dal rancore verso una politica che non è stata in grado di cogliere il cambiamento e ha perso la funzione di comune sentire. La società è diventata più frammentata e ansiogena e persiste un clima di sfiducia e di rabbia dei cittadini contro lo stato e contro la politica. Scomparsa la visione e l’ideologia siamo rimasti intrappolati in un eterno presente e la politica oscilla tra promesse e veti. L’ultimo segretario della Democrazia Cristiana Mino Martinazzoli profeticamente nel 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino aveva detto: [2]“noi democristiani che abbiamo vinto contro chi credeva nel tutto della politica rischiamo di essere sconfitti da chi agita il nulla della politica”. La speculare competizione destra-sinistra ha messo nell’angolo la politica del confronto e i partiti sono stati sostituiti da leadership personalistiche, anche grazie a leggi elettorali che premiano la fedeltà al “capo” e non il vero consenso. Il mercato illusorio ha sostituito quell’impianto costruito dall’indispensabile rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Governare significa soprattutto affrontare senza eluderle le questioni più complesse, senza aver paura di erodere il patrimonio elettorale. I conigli dal cilindro vanno bene quando sono una novità ma non incantano per tanto tempo. Alla lunga il rischio che i cittadini si possano stancare dei prestigiatori della politica è molto alto come dimostra l’aumento della disaffezione degli elettori dalle urne. L’affluenza è cominciata a scendere da quando i politici hanno occupato social e spazi televisivi. Il comizio si tiene ancora ma complessivamente è stato sostituito dai social network, dai blog che comunicano il pensiero del leader. La campagna elettorale è così diventata permanente, comunicare prima ancora di amministrare è diventato l’obiettivo di ogni politico. L’immagine è prevalsa sulla parola, l’apparire sull’essere; prima la televisione e poi i social hanno innescato un processo che ha trasformato l’elettore in uno spettatore che ha cominciato a vagare come un esule senza patria in cerca di un approdo che cambia di continuo. Ci siamo allontanati dal faro della Costituzione e ci siamo avventurati verso una tendenza alla ribellione fine a sé stessa, una sorta di fastidio per ragionamenti e riflessioni per abbracciare la semplificazione dello spot e della propaganda e siamo finiti per apprezzare forme autoritarie senza autorevolezza con i “gattopardi” che dominano la scena nel camaleontismo e nel disincanto. Occorre recuperare, attraverso il passato, la lezione della buona politica che è fatta di decisioni consapevoli, non di sondaggi. Guardare al futuro nella consapevolezza che per vincere rassegnazione, disimpegno, indifferenza e disincanto, ognuno deve fare la propria parte. Nel testo si mette in evidenza un lungo ciclo, dall’alba al tramonto della politica dei partiti, oggi quell’epoca è alle nostre spalle, dopo anni, però, siamo ancora dentro una stagione dai contorni indefiniti, abbiamo destrutturato le nostre certezze per immergerci nel mare delle indecisioni e delle contraddizioni.
[1] Giuseppe Lazzati, prefazione a “Cristianesimo e democrazia” di Jacques Maritain, Edizioni Vita e Pensiero 1977
[2] Discorso di Mino Martinazzoli al XVIII congresso della Democrazia Cristiana 20 febbraio 1989