Moro, la carne si è fatta logos. Un tentativo di comprendere il linguaggio

Parlo dunque sono è un libro che parla di noi, perché quando si entra nei territori del linguaggio non si può far altro che parlare di noi e di una lingua che, sebbene sia una, in fondo resta ancora ignota

Tempo di lettura 4 minuti

Noi non vediamo la luce, vediamo solo gli effetti che ha sugli oggetti. Sappiamo della sua esistenza solo perché viene in parte riflessa da quello che incontra nel suo cammino, rendendo visibile ciò che altrimenti non lo sarebbe. Così un nulla, illuminato da un altro nulla, diventa per noi qualcosa. Allo stesso modo funzionano le frasi e le parole: non hanno contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano qualcosa. Andrea Moro, Parlo dunque sono, Adelphi, pag. 174.

Un viaggio personale all’interno del pensiero linguistico e un piccolo album dove ­– come ci dice lo stesso autore – si raccolgono nomi illustri di pensatori occidentali quali Platone, Aristotele, Dante, Cartesio, Noam Chomsky, Ferdinand de Saussure e altri che hanno tentato di comprendere il linguaggio e le sue incredibili e infinite sfaccettature. Consapevole di quanto sia ardua ogni ricerca che si proponga di sviscerare la natura del linguaggio Andrea Moro ha approntato un nucleo di riflessioni partendo dal presupposto di un logos “naturale”, cioè se il linguaggio è espressione della nostra struttura biologica, si dovrà capovolgere il prologo giovanneo e affermare che “la carne si è fatta logos”.

Premetto che la linguistica è una materia che per molti versi può apparire arida, tuttavia il libro mi ha intrigato non poco e queste “istantanee” messe insieme come in un libro fotografico hanno il pregio, ognuna, di aprire mondi, di scassinare consuetudini, e quindi di proporre visioni, ma anche paradossi. Si può perfino storcere il naso o affermare che molte considerazioni sul linguaggio siano delle ovvietà ma man mano che si procede nella lettura ci si accorge dell’inevitabilità di un coinvolgimento profondo, addirittura emotivo. Tentare il linguaggio, in altre parole, interrogarlo nelle sue strutture più intime e naturali, biologiche, o cercare di semplificarne le sue complessità costitutive nel tentativo di trarne qualche legge come quando si scopre la natura ricorsiva della grammatica generativa e da qui l’idea che la lingua del mondo sia una, perché le sue strutture sono le stesse e che la diversificazione babelica sia un dono e non un maleficio, allora altre considerazioni possono far sì che un linguaggio si generi piuttosto che da un’evoluzione storico culturale da un limite. L’ipotesi, che le regole sintattiche di una lingua madre si costruiscano progressivamente sul nulla, è stata sostituta con l’ipotesi, che gli esseri umani nascano con un cervello che (in potenza) contiene già tutte le sintassi possibili. Sembra una banalità, ma non lo è. Come dire che per uno scultore il blocco di marmo contiene già la scultura. Qui, in realtà si vuol dire, continuando nella similitudine artistica, che non si può andare oltre la possibilità che il blocco di marmo già possiede. Il cervello, la mente, in pratica funzionerebbe da selezione e non da costruzione. Processo per cui, si scopre nel libro, Jacques Mehler coniò la definizione ormai classica di “apprendimento per dimenticanza”. E forse ne deriverebbe che la tensione tra anomalia e analogia è il motore del nostro pensiero. “Da una parte, infatti, il significato delle cose emergerebbe da un magma informe e infinito con la nascita spontanea di rapporti simmetrici (l’analogia, appunto); dall’altra, la stessa struttura si formerebbe invece da impreviste e imprevedibili rotture di un immenso reticolo di regolarità simmetriche, dove tutto sarebbe altrimenti inerte perché ubiquitariamente invariante (l’anomalia, appunto) ”. Essenzialmente c’è qualcosa nel linguaggio che sappiamo da soli (lo diceva Marco Terenzio Varrone, Rieti 116 a.C. – Roma 27 a.C.). Come dire che non tutto s’impara “culturalmente”. Nel suo Discorso sul metodo Cartesio scrive: “Non esistono persone che non siano capaci di disporre insieme delle parole e con esse comporre un discorso con il quale far intendere il loro pensiero. E al contrario non esiste un altro animale tanto perfetto o posto in una condizione tanto favorevole da poter fare una cosa simile”. Oggi si dà dunque per assodato che la sintassi sia lo spartiacque tra il codice comunicativo dell’uomo e quello di tutti gli altri animali. D’altronde, ci dice Moro, deve essere la struttura del nostro linguaggio che ci rende diversi dagli altri animali. Siamo, infatti, l’unica specie nella quale un individuo non rifà da solo, da capo, tutta la storia. Ciascuno di noi parte da ciò che altri hanno scoperto prima. Un ragno no. Un ragno fa esattamente la sua ragnatela come la faceva suo padre e prima suo nonno: perfetta, complicatissima, ma in pratica identica. Beh, forse si scoprirà che la sintassi è collegata a qualche parte del cervello, a qualche rete neuronale specifica, come adesso si dà, ormai, per certo che il progresso e la storia siano il risultato dell’impatto che la struttura del linguaggio ha sulla scrittura, eppure qualcosa sembra sfuggirci sempre, come se ci fosse in ogni limite superato l’altro nuovo e così all’infinito. E che questi tentativi, per esempio, di localizzare la coscienza, Solms ritiene che possa situarsi nel tronco dell’encefalo diversamente da ciò che “comunemente” si crede nella corteccia cerebrale, siano, sebbene legittimi e utili, delle enormi pretese di varcare confini sicuramente valicabili ma magari non opportuni.

Qui il discorso si farebbe molto ampio e complicato, mi preme, quindi rilevare che non si tratta di un discorso antiscientista ma semplicemente rimarcare una pretesa filosofica interrogante sul senso della scienza che, a volte, sembra porsi come un soggetto metafisico non desacralizzabile. Bene, quindi, con la scienza, con qualsiasi tecnologia, bene con la grammatica evolutiva, bene con le reti neuronali che disegnano la nostra sintassi, bene con il De vulgari eloquentia di Dante, bene con la nostra lingua madre, bene con i linguaggi naturali, bene con le lingue artificiali o impossibili, purché nella consapevolezza che parliamo tutti una sola lingua. Di fatto, Dante non lascia dubbi, scrive Moro in quel brillante e inquietante capitoletto che chiude il suo libro, pur nella diversità di pronuncia e di vocabolario, tutto il mondo parla la stessa lingua. Pensare il contrario è osceno. Ovviamente bisogna leggere il libro, meditarlo, e sfogliarlo con molta attenzione per scioglierne i paradossi ma anche per lasciarsi andare a riflessioni per niente scontate. È un libro che parla di noi, perché quando si entra nei territori del linguaggio non si può far altro che parlare di noi e di una lingua che, sebbene sia una, in fondo ci resta ancora ignota.

Andrea Moro, Parlo dunque sono, Adelphi, pag. 174

Andrea Moro è professore di Linguistica generale alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia e romanziere. Di lui Adelphi ha pubblicato anche Breve storia del verbo essere (2010). Parlo dunque sono, apparso per la prima volta nel 2012, viene qui riproposto con l’aggiunta di tre nuove “istantanee” dedicate a Richard Kayne, Cartesio e Dante Alighieri.

Previous Story

“Scrive l’uomo sbagliato” e dal tunnel spunta una luce

Next Story

Croce, indagini su Hegel attraverso il ghiribizzo della letteratura