Mini autobiografia di Mimmo Grasso
Sono nato nel 1949 nella Calabria Saudita (Pitagora) e vivo nei Campi Flegrei (Virgilio). Ho fatto le scuole grandi a Napoli, laureandomi in lettere classiche ed in filosofia. Ricordo con fervore gli insegnamenti degli amatissimi Marcello Gigante ed Aldo Masullo che mi hanno trasmesso l’amore e l’attenzione per il metodo. Scrivere un testo poetico, per me, è un lavoro da filologi della Psiche. Mi sono dedicato a studi antropologici mischiandomi col popolo delle tammorre durante le feste popolari del Sud; ho riacceso la Patafisica a Napoli col Satrapo Mario Persico, ho fatto incursioni nel cinema e, per l’Asylum Anteatro ai Vergini, nel quartiere Sanità, ho scritto per il teatro. Come traduttore, mi piacciono le lingue periferiche e mi diverte tradurle in napoletano, dialetto che ho scoperto in età avanzata e che ritengo possente, duttile e con formidabile apparato metaforico. Ho approfondito tematiche economiche e di marketing, ho praticato laboratori di management sul campo e mi sono dedicato all’alta formazione. Ho pubblicato molti saggi, con approccio cognitivista-funzionalista, e 20 libri di poesia, quasi tutti a tiratura limitata (“il mezzo è il messaggio”) in tandem con artisti visivi. In sintesi:
sono stato filosofo, utopista,
assessore, poeta, ambientalista,
tammurraro, cantore, pianista,
tipografo, velista, apneista,
archivista, filologo, ballista,
doppiogiochista, buddista, esorcista,
archeologo, psicologo, saggista.
non in quest’ordine ma questa è la lista.
diciamo pure: fui un opportunista:
l’essere l’ho trattato da grossista,
ne sono stato l’avaro egoista
e tutta la mia vita fu una svista.
mi sono arribattato, di me altruista
—-
i sonetti di foscolo li ho scritti io.
virgilio mi ha copiato le georgiche.
octavio paz ha dato al suo tipografo
la copia delle bozze di un mio libro.
sto rimettendo a posto poesie in portoghese
lasciate in un baule. ne suggerisco una
col titolo lunghissimo alla bella qingzhao
ambientata in un canto (raccomando
di tradurre “gerani” con “gerani”,
non come l’altra volta che mi ha piantato “ortensie”
mettendo il verso un po’ fuori stagione).
ho un volo prenotato per duino.
mi devo ricordare di spedire
al dr. eucalyptos, new haven,
le incisioni che avella e sgambati
fanno al fischio del merlo che apre aurore boreali.
non ho fissa dimora ma ho molti indirizzi.
sosto assai spesso a napoli,
in vico del pero, c/o Ranieri
e ho un codice fiscale: LPRGCM98H29H211C.
puzzo, ho la scabbia, divoro sorbetti
e di notte pretendo i maccheroni.
non sono folle. folle è chi si crede
napoleone. io sono tutti gli uomini.
a Marcello Gigante
La villa dei papiri e dei misteri
e tu col pugno pieno di sementi,
chicchi di melograno raccolti su un altare.
Chino su pergamene sussurrasti
la morte è ferita rimarginata
integrando frammenti, i sottovoce
di Filodemo, maestro del nostro Lucrezio.
Erano testi in greco elegantissimo,
manufatti di scribi amorosi ed esperti.
Rintracciavi i clinamina del testo
sottraendo alla cenere parole.
Come arcano Melquiades deducesti la vita
è una porta socchiusa su una porta
{davanti i lari officiano
come bambini sulla spiaggia
con le conchiglie della nostalgia}
vivi nell’ombra <esortano> così
non lascerai un’ombra
il più grande dolore è [non] aver [dolore]
soffia il tuo fiato oscuro accenderai
il fuoco che si spegne nei rotoli del fuoco.
Che venga dunque l’ [in]aspettato
come l’ospite a lungo aspettato,
come il vento fa battere la porta
che pensavamo chiusa.
Il buio intinge i pennini
e tu insegnaci ora le tue lettere mute,
o maestro,
spiegaci perché il melograno
– quello lì, oltre i vetri della fine –
custodisce il mistero di un fischio in mezzo ai rami
dove il merlo volò tra <mille> anni.
(“i sonetti di Foscolo” e “a Marcello gigante”, editi nel 2018 in forma di cartella d’arte. 59 pezzi, con incisioni di Mario Persico. Ed. Il laboratorio)
—
la pietra dell’arrotino. la trovai accanto a un termine.
stava lì, come nota a piè pagina
del liber fulguralis che andavo immaginando.
stava. e inerte. in attesa. o sospesa.
in un lampo ascoltai l’universo
produrre una frizione attorno all’orlo
di questa pietra (un po’ stanca, usurata).
la rubai, come un ladro. ritornai
(forse un senso di colpa od un sospetto)
al luogo del mio furto. claudicando
un vecchio la cercava (si appoggiava
allo scettro-bastone del viandante).
mi sorrise, sicuro e dubbioso.
si avvolse nel mantello di un verdetto
(ricordai il misantropo di breughel)
lasciando un malumore fra le zolle.
l’ho messa qui, zavorra e fermacarte
sulla mia scrivania. qui potrà riposare.
a volte fa scintille, mola il sonno.
è una pietra che va per il sottile.
il re degli arrotini mi ha ceduto il mestiere:
manovrare (lui col ginocchio, io col gomito)
un marchingegno molto elementare,
modificare il taglio con l’attrito
(testo inedito)
il dreyt rien*
ad Aldo Masullo
se penso ad occhi chiusi
– pura voce evocata –
tasto il corpo più buio dell’enunciato.
se gli occhi sono elusi
la mente è rinnegata,
da un cane cieco il non detto è guidato.
parlare è suscitato
dal suono che non suona,
che nel nascosto dorme
del senso lascia orme
impresse nell’ascolto mi abbandona
soffiando nella mente
calcare come il no che cela il niente.
assorbo quest’assenza
come la terra asciutta
la gravità di pioggia mai caduta;
ablativa prescienza
– mai stata e già distrutta –
che qui innesta radici a mia insaputa.
la lingua è prevenuta,
mi duole batte e gira
nel verso (la misura
del moto di natura),
costringe il mio parlare in una spira
più forte del taciuto
che dir non oso e che si è in lei perduto.
l’allodola si prende
con lo specchio e narciso
con l’acqua. io mi prendo ad occhi chiusi
quando il tempo m’attende
con inciso un sorriso
nell’ombra degli inchiostri e mi dà i fusi
di segreti, collusi
versi. un’ex-aqua lieve
copre il pensato alle mie spalle, onda
rinchiusa nella sponda
di metro-morte, mio anagramma breve
(scrivo perché ho paura:
se non c’è inganno la realtà è insicura).
ecco: la mente, scissa
tra pensato e vissuto,
attiva il nulla come procedura,
ordinata ed ascissa
di causato e accaduto,
pietra d’ inciampo, pausa di cesura;
calcola la giuntura
tra forma di ragione
ed evento del reale,
presuppone un uguale,
la trinità pensiero-corpo-azione.
il nulla non è nulla:
è il come con cui intreccio cosa e nome.
sarà sempre un poeta
a immaginare il gioco
del nascondere “questo” dietro “quello”,
voce estranea consueta
pupilla che col fuoco
del sempre e del giammai chiude l’anello
dello spazio, il cancello
del fu-ora-è-allora
tra vuoti di memoria,
illo tempore, storia
del fu mai stato, chora,
non-luogo del suo gesto.
lì trova il nulla e annega qui: nel testo.
il nulla è la mia scorza,
predicato e coazione,
iniziazione e rito di passaggio
da camicia di forza
ad aperta prigione
dove rimango escluso dal linguaggio
che fa di me un doppiaggio
che mi scrive e m’iscrive
come soggetto e oggetto
del suo proprio, il concetto
che morte è senza essere e mi vive
come suo istinto (il niente
niente dicendo dice il vero e mente).
canzone che mi chiudi tra le rime,
fai di me l’usignolo
che canta il nulla per non stare solo
testo ispirato da una “tenzo de no re” tra i trovatori Albertet de Sestaro e Aimeric de Peguilhan; non ho rispettato la forma del congedo.
(“Il dreyt ruen” edito nel 2014 dal laboratorio. 50 pezzi. Con acqueforti di Pino Deodato)
coplas *
fu la notte più oscura
ma non ebbi paura
ahi notte dell’assedio
quando fui assorto nell’infausta scienza
– mio veleno e rimedio –
d’essere identico alla differenza
o notte di frattura
– io non ebbi paura –
che la morte sutura
prima scena: a un non-nato
guarisco cicatrici sulla bocca;
l’ungo con un filtrato,
teriaca che distillo goccia a goccia
altro quadro: nascondo
la colomba senz’ali del volere
nel primo sogno. attendo
che dorma dentro il calco del sapere
terzo atto: una stanza:
sto tracciando col gesso il mio conflitto:
un’ombra s’alza e avanza,
porta l’indice al volto a dirmi “zitto”
ero io la mia congiura
ma non ebbi paura
(l’arelato del sogno appare in trittico di azioni simultanee. ho l’impressione che ciò che ho scritto sia stato escogitato da altri prima di me, che io sia un suo calco)
chi è non-morto è non-nato,
un non ancora e già, in positivo;
ex opere è operato
– tutto è + nulla, negativo
cicatrice è l’umano
ricordo, segno del predestinato
manovro con la mano,
l’impongo sul non detto del passato
manipola qualcosa,
ricrea il taciuto e mi usa, suo balocco,
l’anima numinosa:
magici sono la parola e il tocco
la colomba se dorme
inclina il capo sotto bianche ali
di cui non vidi forme.
“non alata parola” è il suo segnale
chi mi vuole zittire
è l’ombra che intravedo come un’erma.
tipico il suo apparire:
non-no che appare e scomparendo afferma
il buio arde gli incensi
e scintille mi oscurano. piagato
da stimmate di sensi,
muto mi parlo con gesto amputato
(qui inizia la scrittura.
è ora che ho paura)
* San Juan de la Cruz