Le rivolte sono una reazione al teatro
della politica.
Le bottiglie scagliate e le automobili
rovesciate sono una risposta a un teatro
ottuso, meccanico e mortale.
(Peter Berg, Viaggio senza biglietto, 1966)
Non è necessario riscoprire Jerry Rubin, indomito attivista statunitense scomparso tragicamente nel 1994, per convincersi che la rivoluzione in teatro è una contraddizione. Essa non può essere imprigionata tra quinte, pareti, tavole del palcoscenico, baluginio di luci, orario di inizio, costo dei biglietti, trovate registiche, voci inarcate e pause sommesse degli attori. Il compito del teatro rivoluzionario è di fare la rivoluzione: questo “progetto” apparve un’utopia, ma ben presto il suo messaggio, che il 1968 sussurrò nell’orecchio di una storia immemore e ingrata, divenne un’aporia (“Recitare uno spettacolo lungo le barricate è degradare le barricate” fu l’urlo di Judith Malina nel maggio parigino di circa cinquantacinque anni fa).
Qual è la fuga possibile, quindi, dall’inesorabile impossibilità di (non) fare teatro, dopo gli anni ruggenti delle crisi dell’avanguardia, delle lusinghe interdisciplinari e metateatrali e dell’insidia soggettiva o primattoriale che delimitano e segnano il viaggio dell’umanità attraverso il paradosso della scena? Se qualcuno ha tentato una risposta ha dovuto arrendersi a una critica di modelli e canoni già praticati e falliti, altri hanno ipotizzato la fine del teatro e voci estreme (Carmelo Bene innanzi a tutti) hanno processato il “nemico efferato” del teatro, che è – guarda un po’! – proprio la rappresentazione. L’irrappresentabile compare, dunque, come categoria vietata e inattingibile e, dunque, come sintomo del contemporaneo mal di teatro, risposta che gela il bisogno di manifestarsi (e di esibirsi) secondo verità.
Pensavo fra me al “mio” inquietante teatro sommerso, alle traiettorie descritte da gruppi transitati dallo spettacolo all’informazione e fatalmente approdati all’autoconsunzione che ha annientato esperienze complesse passate con estrema difficoltà dalla logica dello sguardo a quella dell’azione; e ci pensavo logorandomi nella previsione di dove potesse approdare la ri-presa in carico della parola in un ipotetico progetto culturale che comprendesse anche la scena, quando è arrivato l’invito di Massimiliano Amato, collega giornalista acuto e colto, analista attento della storia contemporanea, in particolare quella ancora calda e divisiva che si diparte dalla fine della seconda guerra mondiale e giunge ai nostri giorni, a partecipare alla sua Serata Matteotti, un viaggio teatrale alle radici della nostra democrazia, attraverso le parole del primo martire dell’antifascismo.
Amato domina molti registri cronistici e analitici, è autore di saggi ben accolti da pubblico e critici, studioso e storico del movimento socialista e co-direttore della rivista Critica Sociale, fondata nel 1891 da Anna Kuliscioff e Filippo Turati; ha, cioè, tutti i requisiti per essere considerato un “giornalista rilegato”, secondo i parametri che a suo tempo adottava Enrico Falqui; in una parola è un intellettuale autentico nel tempo dell’intellettualità abusiva o simulata. Il teatro, però, non è mai stato tra i suoi percorsi. Evidentemente – mi sono detto rileggendo la locandina di annuncio dell’evento –la drammaturgia sarà stata una sua corda sepolta, che avrà vibrato in questi giorni avari di stupore non per diffondere messaggi, ma per farci ascoltare una storia, un pezzo di Storia, attraverso la voce di chi ha cooperato a trasformare eventi della propria vita nell’esperienza collettiva di edificazione della libertà. D’altra parte, l’amicizia tra Massimiliano Amato e Luciana Libero, critica e storica del teatro, soprattutto contemporaneo e d’avanguardia, non riusciva a spiegarmi, da sola, l’intensità di una seduzione adulta e di un cimento rischioso per un cronista di vaglia quale egli certamente è.
Ho preso posto in platea prefigurandomi l’ascolto di un racconto costruito in antitesi alla società dello spettacolo, addirittura contro di essa, allestito per confermare, con Jean Duvignaud, che “la rivoluzione è il teatro stesso della società” (Il teatro, e dopo, 1971), e la cui postuma rappresentazione è ideata per risvegliare passioni sopite e rendere possibile agli altri, a noi altri, alle masse sonnecchianti, quello slancio che, in tempi lontani, ha prodotto acquisizioni di spazi di democrazia e di partecipazione, annunci d’albe e apparizioni di ri-sorgenti “soli dell’avvenire”.
Temevo però una scrittura indirizzata verso esiti arcaici, misterici, sacralizzanti. Lo temevo, perché avvertivo il rischio dell’ardore ideologico che, talvolta, fa impugnare la baionetta pedagogica, il verbo seduttivo, che lacerano il teatro contemporaneo. Grassi e Strehler, nel secondo Novecento, proposero un teatro d’arte per tutti e proprio quest’intento, immaginato per aree diffuse, senza alcuna distinzione sociale, in qualche caso ha finito per deformare i messaggi. Per tale motivo ho sempre amato Pasolini, per il quale il teatro è destinato soltanto a chi vuole concretamente capirlo e si avventura intrepido nel suo corpo vivo e colto. E al Pier Paolo di tutti noi ho rivolto il mio pensiero e dedicato la mia attesa. Spero – ho detto fra me – che la parola questa sera non sia banalizzata; spero, cioè, che tra qualche minuto si attivi quel “rito culturale” nel quale l’attore, co-operatore dell’invenzione, e lo spettatore attento riescano a stringersi in un patto che penetri criticamente la parola, la ri-significhi, la ri-moduli, risillabandone il senso e gli echi.
I miei pensieri sono finalmente interrotti dall’inizio dello spettacolo. La Serata è articolata in tre parti. La prima è scandita da alcuni brani scelti dal libro bianco (“Dopo un anno di dominazione fascista”) che Giacomo Matteotti diede alle stampe già alla fine del 1923 sulle violenze e le persecuzioni del regime. Il dossier, pubblicato su Critica Sociale (1924), avrebbe contribuito alla condanna a morte del giovane politico, riuscito a espatriare clandestinamente per far conoscere ai francesi e agli inglesi il vero volto di una “svolta” che era già sul punto di diventare spregevole dittatura. La seconda parte è animata dal discorso pronunciato da Matteotti a Montecitorio il 30 maggio 1924: al centro i brogli elettorali avvenuti nelle elezioni di aprile. Undici giorni dopo, il segretario del Partito Socialista Unitario, leader dell’opposizione parlamentare a Mussolini, sarebbe stato rapito e ucciso. Nella terza parte del percorso teatrale il sacrificio di Matteotti rivive attraverso l’orazione commossa tenuta il 27 giugno del 1924 dal leader socialista Filippo Turati, durante la riunione delle opposizioni parlamentari. Il corpo del parlamentare rapito non era stato ancora ritrovato. Nel primo blocco è Carla Avarista a dare voce a Matteotti: misurata nella ricerca della sonorità accorata della parola politica di denuncia e di sdegno, la sua voce esprime la suprema, antiretorica esigenza di chi ha contratto un debito con sé stesso. È il je accuse di un martire della libertà, esempio, per dirla con De Berardinis, di un teatro “eliminato” nella sua ritualità borghese facendo teatro. Nella seconda parte, Pasquale De Cristofaro (regista e maestro di teatro) fa rivivere, nel suo stesso corpo e con il supporto di Alessandro Tedesco e Luigi Vernieri, la tensione di un’aula rabbiosa e odiatrice dinanzi alla quale Matteotti lancia la sua sfida al cuore di un regime liberticida, marcio sin dalla sua genesi. Un atto teatrale dirompente, mai comiziesco, dialettico, provocatorio, implacabile: il pubblico, partecipe, entra a farne parte come un coro greco, coinvolto dalla rappresentazione di una denuncia presente, incarnata nell’apparizione della verità concreta di una ferita viva e vivificatrice, sollevata dallo stigma del tempo. Chiude la serata Massimiliano Amato, ideatore del progetto, con l’intervento lirico di Turati per la commemorazione di Matteotti. Un compito difficile per chi non è un attore, ma assolto con rigore filologico e interpretativo: nessun cedimento alla commozione, di cui pure erano intrise le parole del leader socialista, ma solo il racconto di un’esperienza di vita sacrificata sull’altare laico della libertà. Non la storia di ciò che cento anni fa accadde a un uomo, ma il racconto di un uomo che seppe far tesoro, soprattutto per gli altri, di ciò che gli accadde.
Tra un brano e l’altro, così come all’inizio e alla fine, Massimo Ferrante ha interpretato alcuni brani sul sacrificio di Giacomo Matteotti e alcune canzoni della tradizione popolare: suoni e parole che hanno toccato le corde degli spettatori senza prevaricare sul testo, favorendo il dialogo tra le parti della serata, fuori da ogni mascheramento armonioso o armonico.
Avevo pensato a Pasolini, aspettando la rappresentazione, per scoprire che la presenza del poeta mi aveva accompagnato lungo tutti i novanta minuti dell’oratorio civile, quale prodigioso supporto critico-filologico. L’idea di Amato, in linea con il cantore di Casarsa, non era quindi banalmente rivolta a tutti (le generiche platee mai hanno prodotto valori) ma cercava l’ascolto di un pubblico sensibile al senso rinnovato e profondo delle parole: né teatro della Chiacchiera né teatro dell’Urlo. Entrambi odiano la parola, ipocrita è il primo, irrazionale il secondo, teatri che divertono o scandalizzano, senza consegnare lo spazio scenico alla Parola nuda, densa. Quest’ultima non ricerca un ambiente, ma s’insedia nella testa dello spettatore. È la sublime premessa del rivoluzionario Manifesto (1968) che Pier Paolo Pasolini scrisse per un nuovo teatro, quasi mai praticato, forse nemmeno da lui che deviò – sin da “Pilade”, una delle sue prime scritture – verso forme sacrali dense di mistero.
Avrà forse contribuito la disposizione frontale dello “spazio teatrale” – testo e attori di fronte al pubblico, senza orpelli scenici, solo due poltrone, un leggio, luci necessarie e senza “giochi” – ma di certo Serata Matteotti ha plasticamente rappresentato l’idea della democrazia, indispensabile fucina di messaggi, a un tempo, datati e densi di futuro. Sarebbe stato improvvido immaginare un Teatro di Parola, secondo la riformulazione pasoliniana, rivolto direttamente alla classe lavoratrice: a quest’ultima il Teatro può arrivare attraverso gli intellettuali, i “borghesi avanzati” che costituiscono il suo pubblico diretto. Per ri-trasmettere la parola nuda e scarna, densa di profondità attingibili con la cultura e la capacità attitudinaria e interpretativa di riferirsi alla storia civile e a quella del pensiero, è necessaria la mediazione di chi è in grado di comprendere. Saltarla significa dover ricorrere alla retorica e agli orpelli, alle suggestioni emotive, dalle scenografie alle musiche, ai costumi. Una svolta, questa di Pasolini, che fu a suo tempo osteggiata: il teatro non ha mai amato chi opera per lacerarne gli schemi, sia pure con l’obiettivo di dare il via a una permanente avanguardia culturale italiana, che sembrò delinearsi negli anni ‘70 e ‘80. La spinta innovativa seppure ignorata dai più, però, vi fu. Non so se Massimiliano Amato l’abbia raccolta consapevolmente o per una comunanza di visione culturale con la temperie del nostro dopoguerra artistico e letterario. Ciò che è certo è che, nello spettacolo da lui ideato per Matteotti, si opera contro gli specifici teatrali, dando vita a un rilevante lavoro inter-codice. I singoli codici, infatti, nel teatro si sovrappongono e si elidono. Restano linguaggi isolati, diceva Achille Perilli, co-fondatore dell’avanguardia Forma 1 di ispirazione marxista. Dalla loro distruzione nascono, invece, terreni creativi molto vasti e affascinanti, che si avvicinano al reale funzionamento ideativo della nostra mente. E nel teatro, quello di Parola, tutto ciò può realmente accadere: può, cioè, comparire per l’uomo una nuova vita consapevole, dentro quella che ha; ogni suo atto può diventare una domanda, a partire da quella sulla libertà e sulla giustizia; alcune sue certezze possono essere svelate come inganni che impediscono di aprirsi alla pienezza umana e civile. Ecco. Se dovessi individuare in termini spaziali la dimensione della Serata Matteotti, direi che ha indicato un nuovo orizzonte sul quale poter lanciare lo sguardo, lungo la stessa traiettoria tracciata, nell’indifferenza di anni bui, dal poeta di Casarsa, che fu anche profeta civile.
(da Critica Sociale, luglio 2024)