Le metamorfosi: da “agnelli” a iene, la crisi dell’auto in Italia

La "famiglia” ha dominato l'industria automobilistica italiana per oltre un secolo, ma la gestione della FIAT e, più recentemente di Stellantis, ha sollevato sempre interrogativi sulla reale visione strategica

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Anni fa in Confindustria un relatore affermò che se non ci fosse stata la Fiat, l’Autostrada del Sole forse doveva ancora farsi… nel mio intervento mi permisi di dissentire e affermare quasi il contrario, visto che la famiglia Agnelli aveva sempre prosperato a spese dell’Italia, cose impopolari da dire in quel consesso, anche se i più lo pensavano eccome!

La “famiglia” ha dominato l’industria automobilistica italiana per oltre un secolo, ma la gestione della FIAT e, più recentemente di Stellantis, ha sollevato sempre interrogativi sulla reale visione strategica e sulle loro reali competenze nel settore automobilistico, non sono mai stati dei Ferrari, dei Lamborghini, innovatori dell’industria automobilistica, né hanno mai avuto una vera comprensione del settore. Piuttosto, hanno saputo sfruttare abilmente le relazioni con lo Stato italiano per assicurarsi che le loro perdite venissero assorbite dalla collettività, mentre i profitti rimanevano saldamente nelle loro tasche… insomma distanti dall’essere condottieri di aziende come Volkswagen, Ford, Opel, BMW, etc..

Salvata dallo Stato più e più volte, la storia degli interventi statali per salvare la FIAT è lunga e ripetitiva, iniziando già dal dopoguerra. Negli anni ‘70, il governo italiano intervenne con una massiccia iniezione di capitale pubblico per salvare l’azienda dal collasso. La crisi energetica, il calo della domanda e i costi legati agli scioperi misero la FIAT in ginocchio e senza il supporto dello Stato italiano, l’azienda avrebbe probabilmente chiuso i battenti. Tuttavia, nonostante i salvataggi ripetuti, gli Agnelli hanno sempre saputo proteggere i propri interessi, garantendo ai suoi azionisti -e a loro stessi- dividendi anche nei momenti di maggiore crisi.

Episodio particolarmente emblematico fu l’acquisizione (si fa per dire…) di Alfa Romeo nel 1986. La storica casa automobilistica, simbolo del design e dell’ingegneria italiana, fu letteralmente donata agli Agnelli. Il governo italiano, tramite l’IRI cedette Alfa Romeo a FIAT senza alcuna gara, bloccando le offerte di altri gruppi automobilistici come Opel, Volkswagen, ma anzitutto Ford la cui offerta fece vacillare Altissimo e soprattutto Craxi. Ciò fu motivato dal desiderio di mantenere l’Alfa Romeo in mani italiane, e il tutto si trasformò in un’altra opportunità per FIAT di acquisire senza investimenti strategici una casa automobilistica di pregio mondiale ma al netto dei debiti che si caricò lo Stato: nihil novi…

Nel 2002, la situazione si ripeté. FIAT era di nuovo in difficoltà e ancora una volta il governo italiano intervenne per evitare il fallimento. Il piano di salvataggio prevedeva una serie di agevolazioni fiscali e incentivi alla rottamazione, destinati a sostenere la domanda di auto. Ma anche questa volta, gli Agnelli riuscirono a trasformare una crisi in un’opportunità per sé stessi, continuando a garantire dividendi agli azionisti nonostante la debacle.

La cassa integrazione: una bella trovata per le incapacità gestionali

La cassa integrazione è stata un altro strumento che gli Agnelli hanno saputo sfruttare con grande astuzia. Fin dagli anni ’70, la FIAT ha messo spesso e volentieri i suoi dipendenti in cassa integrazione a zero ore durante i periodi di crisi, trasferendo il costo del lavoro allo Stato italiano. Questo ha permesso all’azienda di mantenere i costi operativi bassi, mentre continuava a ristrutturare, chiudere stabilimenti e delocalizzare la produzione.

Oggi, con la scuola fatta, anche Stellantis segue questa strategia. Gli stabilimenti italiani di Melfi, Mirafiori e Cassino vedono regolarmente i propri operai messi in cassa integrazione, mentre la produzione si sposta altrove, contribuendo ad un declino del settore automobilistico in Italia. Gli operai italiani, un tempo maestri della meccanica e del design, perdono il proprio know-how a causa di anni di inattività forzata e della progressiva riduzione delle linee produttive.

Mentre gli operai italiani languono in cassa integrazione, Stellantis ha rivolto il proprio sguardo alla Cina: una parte crescente della produzione del gruppo è stata delocalizzata nel paese asiatico. Stellantis, tramite joint venture con gruppi cinesi come Dongfeng e GAC, sta producendo centinaia di migliaia di veicoli ogni anno in Cina. Nel 2023, si stima che Stellantis abbia prodotto più di 100.000 veicoli in Cina, con l’obiettivo di espandere ulteriormente la produzione nei prossimi anni. Questo spostamento di produzione all’estero ha ulteriormente aggravato la situazione in Italia, dove la capacità produttiva continua a essere ridotta e restano lavoratori a casa, mentre le auto vengono prodotte dall’altra parte del mondo.

L’auto a batterie: l’insuccesso annunciato da Marchionne…

Il mercato europeo ha mostrato notevoli resistenze per le auto a batterie, le vendite sono deludenti a causa degli alti costi dei veicoli, della scarsità di infrastrutture di ricarica e della mancanza di una vera domanda da parte dei consumatori riluttanti ad abbandonare il motore a combustione interna e principalmente (chiamateli scemi!) per lo spauracchio di dover affrontare la spada di Damocle che prevede di dover cambiare batterie dopo 8-10 anni con una spesa di circa 20.000€ su un’auto che forse varrà la metà quella cifra: è per questo che ci si aspetta il crollo dell’usato per le elettriche di 5-6 anni, e che ci sarà tra non molto.

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E nonostante Tesla stia ormai per fare una imminente -e seconda- rivoluzione con le auto a celle d’idrogeno, Tavares, CEO di Stellantis, sulla scorta dell’insegnamento degli Agnelli continua a chiedere sovvenzioni statali per le auto elettriche in Italia che tutti gli addetti ai lavori già considerano il passato… ma beninteso: non per auto prodotte in Italia, ma in Cina, lasciando al solito ai contribuenti italiani il compito di coprire le perdite.

In tutto questo scenario si aggira un fantasma, quello del presidente di Stellantis, distaccato dalle vere problematiche del settore automotive e più interessato a investire in altri settori, come i media e la tecnologia, piuttosto che occuparsi della gestione strategica di Stellantis. Questo disinteresse di John Elkann per il futuro dell’industria automobilistica italiana si riflette nelle politiche aziendali del gruppo, che continua a delocalizzare la produzione e a chiedere incentivi statali, mentre il ruolo dell’Italia diventa sempre più marginale.

Le decisioni cruciali vengono prese in Francia e negli Stati Uniti e l’Italia è relegata in una posizione secondaria, e lui se ne impippa… Il risultato è una crescente disconnessione tra le esigenze del mercato italiano e le politiche industriali di Stellantis, è aggravata dal disinteresse di Elkann per i lavoratori italiani.

Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy (per l’appunto!), farebbe bene a prendere atto che l’industria automobilistica italiana di massa non esiste più, è un dato di fatto, quindi a cosa varrebbe concedere gli incentivi per auto che non portano lavoro in Italia? Se saremo comunque costretti per ora a comprare auto costruite in Cina, allora meglio dare incentivi a Fonti Rinnovabili, Innovazione industriale, Efficientamento energetico, Turismo, Cultura e perché no, all’industria della Moda che esporta in tutto il mondo… almeno la “spesa varrà l’impresa” e gli incentivi rimarranno qui.

Scordiamoci della Fiat e degli Agnelli che hanno portato all’estero finanche tutta l’eredità della nonna Marella e chissà quant’altro, loro hanno tutta l’intenzione di lasciare allo Stato il compito di raccogliere i cocci di un’industria che non c’è più.

Bella Metamorfosi, da agnelli a Jene.

Carlo De Sio

Laureato in Scienze Politiche ed Economiche, con Master in Psicologia sociale e P.R, ha lavorato nella Comunicazione d’impresa e nelle Relazioni Pubbliche per oltre 40 anni. Ha fatto parte dei direttivi di Organismi nazionali quali ACPI-Milano, FERPI-Milano e Confindustria. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1999.
Fa parte di un gruppo di specialisti per la revisione di testi generati dall’I.A. e partecipa nel Deep Web a un gruppo di approfondimento che ha come focus notizie e valutazioni sulle crisi politiche in atto.

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