Giacomo Garzya, un bagliore lattiginoso indicava la via Lattea e chissà quante anime lassù a vagare

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Il poeta Giacomo Garzya

Giacomo Garzya (Napoli 1952), poeta e fotografo, laureato in Storia moderna alla Federico II di Napoli con 110 e lode, borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici e ricercatore laureato retribuito a tempo pieno del CNR, già docente di Materie letterarie nelle Scuole statali, ha pubblicato saggi storici, diciotto raccolte di poesie e diversi libri di fotografie: appena usciti “È la vita”, Villanova di Guidonia 2024 e “Fermo immagine a Nord Est”, Trieste, 2024. Ha partecipato dal 2023 a vari concorsi di poesia, risultando secondo al “IV Premio Intern. Fëdor Dostoevskij”; finalista al “XIX Premio Internazionale Mario Luzi, 2023-2024”; sesto all’ “VIII Premio Internazionale Salvatore Quasimodo”. Molte sue poesie sono state tradotte in inglese, in greco moderno e in francese, qualcuna in spagnolo, tedesco e arabo classico. Biografia completa sul sito web “Giacomo Garzya – Le Immagini e la Poesia” https://www.maree2001.it .

 

I SASSI PARLANO

I sassi parlano delle mareggiate,

sono scomposti,

ma poi si stringono insieme

per la forza del mare

e hanno bisogno del calore del sole

per sorridere ai colori del cielo

e fanno pensare ai tuoi occhi smarriti

quando non leggi nei miei

la gioia del giorno,

e allora, come i sassi, ci si stringe

forte forte per quel calore,

per quei colori,

per quella resistenza all’onda avversa,

che riportano la gioia di amare

e vivere insieme una vita.

 

Anche i sassi hanno un’anima.

 

 

TEMPESTE

Di Alessandro Scarlatti
una sinfonia non scritta
ho ascoltato,
in una cappella sul ciglio
del mare, fatto di aghi bianchi
e trasparenti cristalli.
Le onde impazzite, racconta,
del mare, quando esaltano

e lacerano insieme l’anima,
nel ricordo delle tempeste
in ciascuno di noi,
eterno movimento dello spirito,
ora flauto
ora oboe
ora violoncello
ora dolore
ora gioia,
nel teatro barocco e mistico
della nostra vita.

 

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MISERIA E NOBILTÀ

Una cicca, sì proprio una cicca

di sigaretta, erano spiccioli,

quelle che raccoglievano

con bastoni con punta

a chiodo, uomini e donne

persi nell’ombra di se stessi,

ai bordi dei luridi marciapiedi

della Stazione centrale

o a via Roma,

dove i marciapiedi

erano come le ruote delle auto,

putridi di piscio di cane.

Era la povertà di allora,

la povertà di Napoli, ancora

quando con i pantaloncini corti,

a nove, dieci anni correvo

per il centro della città,

io vomerese,

quindi d’un altro pianeta.

Sparirono poi i bastoni con punta

a chiodo e rimasero gli sciuscià,

il mestiere che impomatava,

spazzolava e lucidava

le scarpe coperte di polvere.

L’ultimo sciuscià, lo puoi oggi

ancora incontrare,

Angelo Calza,

fuori la Galleria Umberto Primo,

in quella che ora si chiama

via Toledo,

come cambiano i nomi,

e quando sporcò i miei calzini,

al momento non si dette pace,

ma poi incolpò

le mie scarpe americane, le mie

Timberland da combattimento.

In dollari, disse, mi dovete pagare,

ridendo.

E al Grand Central Station

di New York

gli sciuscià,

sono di nobile stirpe

per i prezzi che fanno,

per la loro prosopopea,

per il loro antico mestiere.

 

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AI POETI

Tu puoi scoprire un luogo,
un paesaggio
anche se lo hai visto già
milioni di volte,
da te dipende,
solo da te porgere la dovuta
attenzione, in almeno un momento
della vita
tanta è l’abitudine a non vederlo
per niente.
Ma quando sei un poeta,
un artista, a te nulla sfugge
e quel luogo avrà una voce,
un profumo, un alito di vento,
che lo renderà unico,
riconoscibile solo a te che lo ami,
a te che lo hai sempre amato.

 

da I sassi parlano, Iuppiter Edizioni, 2016

 

MIGRAZIONI

A me piace ascoltare,

seduto in un Caffè occidentale,

le parlate del Maghreb. Sono

quelle di operai, di lavoratori,

alla fine della giornata, stanche

e allegre insieme.

Monologhi infiniti, che si

mescolano agli altri lati della

piazza con tutte le varietà delle

lingue slave, meno dolci,

ma non meno piene di musica.

A me piace ascoltare, seduto

in un Caffè occidentale della

mia nuova città, ai confini

del mio Paese, le varie

musiche etniche, che trasudano

nostalgia, farina di cemento

e muscoli di calcestruzzo.

Amami terra mia lontana,

che io sia berbero, maghrebino,

serbo, croato, napoletano

e così via.

 

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PER FANNY

Come posso dimenticare

la bellezza del tuo viso,

illuminato spesso

da un sorriso radioso,

quando capivo al volo

i tuoi desideri di figlia,
le tue aspirazioni, i tuoi ideali,

la tua visione del mondo,

non sempre collimanti

coi miei.
Ma tu eri forte

nei tuoi convincimenti

e forte

era anche la tua fede

cristiana, tanto che da parte

mia il rispetto di te,

così giovane e ricca
di speranze

per un uomo migliore,

per un’umanità solidale,

era pieno e incondizionato.
Quando ci hai lasciato,

nel fiore della tua gioventù,
il colpo è stato tremendo

per tutti coloro che ti
amavano e chi ti aveva

conosciuto o incontrato
sulla tua strada,

oggi ti ricorda come

se vivessi ancora tra noi.
Tanti anni sono trascorsi

da quell’infausto giorno
e in me non hanno scalfito

il ricordo del tuo sorriso,
della tua contagiosa allegria

e soprattutto della tua gioia

di vivere.
Il momento, figlia mia, verrà,

quando ci incontreremo

di nuovo e sarai tu a rendermi
felice quel giorno.

 

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LA NOCHE HABÍA PASADO

 

La notte era trascorsa

senza un alito di vento,

con le stelle del firmamento

che sembravano immobili,

splendendo nel loro lucore.

Un bagliore lattiginoso

indicava la via Lattea e chissà

quante anime lassù a vagare,

nell’attesa di una reincarnazione,

di un ritorno sulla madre terra.

Il mio sogno ti mostrava

al tuo nuovo apparire, non solo,

così come ti avevo conosciuta,

ma ancora più bella, più

giovane, più radiosa che mai.

I tuoi capelli al vento,

davano movimento anche al tuo

corpo, che si slanciava nel vuoto,

verso di me, in una danza

leggiadra, a rievocare

il volo di fenicotteri rosa, eleganti

come te, così aerea e lieve,

nella tua gioia di vivere libera.

 

da Il riverbero delle parole, Dantebus Edizioni, 2023

 

 

 

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