Dalla Torah della corte rabbinica fino alla gloria della scrittura

Gli episodi che compongono questo libro, curato da Elisabetta Zevi e tradotto da Silvia Pareschi, furono pubblicati sul Forverts, quotidiano yiddish di New York, e raccolti in volume nel 1956. Con questo volume, Adelphi continua la pubblicazione dell’opera di Singer (1904-1991) insignito del Nobel per la letteratura nel 1978.

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Solo durante un’epidemia si scopre chi è buono davvero e chi fa finta. Persone che erano considerate di nessun valore passavano notti intere a massaggiare i malati, finché non si ammalavano anche loro. Chi in precedenza si faceva passare per santo, adesso si nascondeva. Ma non ci si può nascondere da Dio. Chi si ammalava moriva. I guariti saranno stati una decina al massimo. All’inizio si celebravano i funerali, ma poi non c’era più nessuno per scavare le tombe, e nessuno che osasse lavare i cadaveri. Gli austriaci ordinarono di gettarli nella calce. Non c’erano più sudari. Parlavi con una persona, e il giorno dopo era già sottoterra. Zietta, quanto vale la vita umana – più di quella di una mosca o di un verme? Quando si è ammalato il ricco Henia, i poveri si sono rallegrati. “Il mondo non è solo dei potenti” dicevano. Ma un’epidemia non fa differenza tra ricchi e poveri. Isaac Bashevis Singer, Alla corte di mio padre, Adelphi, pag. 328.

Gli episodi che compongono questo libro, curato da Elisabetta Zevi e tradotto da Silvia Pareschi, furono pubblicati sul Forverts, quotidiano yiddish di New York, e raccolti in volume nel 1956. Con questo volume, Adelphi continua la pubblicazione dell’opera di Singer (1904-1991) insignito del Nobel per la letteratura nel 1978. Mi preme ricordare qui solo qualche titolo: Satana a Goraj, Ombre sull’Hudson, Max e Flora, Keyla la rossa, Il mago di Lublino, Il ciarlatano, e passare subito a questo insieme di vicende realmente accadute. L’avverbio “realmente” va preso con cautela. Si tratta in ogni caso, di letteratura. Nella nota introduttiva, Singer scrive che il suo è un tentativo, un esperimento letterario di combinare due stili, appunto la memoria e le belle lettere. Testimonianza e scrittura, quindi. È la storia di una famiglia e di una corte rabbinica nella Varsavia precedente, durante e appena dopo la prima guerra mondiale vista con gli occhi di un bambino. “La corte rabbinica… era una specie di connubio fra tribunale, sinagoga, casa di studio e, se vogliamo, lettino psicoanalista, dove chi aveva l’animo turbato, poteva venire e sfogarsi”. Una prova, uno sforzo, quello di Singer, di sicuro riuscito. La bellezza della scrittura di Singer è qualcosa di straordinariamente commovente e spietato. Singer ha una capacità descrittiva che ha dell’incredibile, con poche ed essenziali parole, egli riesce a tradurre personaggi, luoghi, mondi, conflitti, religioni, e tanto altro in una parola, in una scrittura che agita domande inesplicabili, desideri, paure, ricordi, risentimenti e nostalgie. Prima di tutto la nostalgia di Dio. “Per mio padre la risposta a tutte le domande era Dio. Ma come sapeva che c’era un Dio, se nessuno Lo aveva mai visto? Ma se Lui, non esisteva, chi aveva creato il mondo? Come poteva una cosa nascere da sola? E cosa succedeva quando qualcuno moriva? Esistevano davvero il paradiso e l’inferno? O una persona morta non se la passava meglio di un insetto morto? Non ricordo un tempo in cui queste domande non mi abbiano tormentato.” D’altra parte di che cosa poteva nutrirsi un bambino figlio di un rabbino sposato con una donna altrettanto esperta della Torah ed entrambi, marito e moglie, con discendenze colte e illustri. Lo spaccato che se ne riceve leggendo queste storie è quello sì, di un periodo lontano che Singer ci fa immaginare e rivivere, – la potenza della sua scrittura è appunto questa capienza, questa gloria – ma è anche che l’apparente inattualità dei suoi racconti ci collega, ci stringe a ciò che non può essere affatto soltanto un accaduto e basta. L’infanzia e la giovinezza, in pratica, il periodo più importante della vita di un uomo, si annodano a quella di ognuno e non solo a quella di un popolo, alle comunità ebraiche con la loro inflessibile storia di abnegazione religiosa, di spiritualità e di sofferenza. Dietro il mondo del vecchio ebraismo si vede la storia fin dai tempi di Mosè, e s’intravede quelle che saranno le vicende di una delle tragedie più terribili che la storia ci ha consegnato: lo sterminio pianificato degli ebrei da parte dei nazisti.

Detto questo, il libro è scrittura di formazione e nello stesso tempo mondo adolescenziale, fantastico, crudele. Mondo che appartiene a tutti, con i suoi quesiti, con le sue ansie e paure, con le sue irrealtà che alla fine si scopriranno essere ancora più assurde. In ogni caso, lo sgomento di lasciare qualcosa di consolidato, un’abitudine, una tradizione per un nuovo che assomiglia più al nulla che a qualcosa di corposo, materiale o immateriale che sia. Insomma, dietro le vicissitudini di una famiglia ebrea, – quella dell’autore è senz’altro particolare, data la presenza prima di un rabbino e poi di un padre, di una madre devota e appassionata di libri sacri, e di un fratello maggiore poco propenso ai testi cultuali e più aperto alle novità profane dei gentili e quindi in dissidio continuo con il padre – s’intravede un intero mondo. S’incontrano personaggi di ogni tipo e uno spaccato di umanità che con le sue ossessioni, eccentricità, fedi, consuetudini, miracoli, speranze, timori di Dio, di spiriti maligni, di guerre, malattie, povertà e quant’altro, sembra sostare in un limbo, dove si perdono tutti i contorni. A Varsavia, intanto, girano i cosacchi, poi gli ufficiali tedeschi, poi gli echi dell’attentato di Sarajevo, lo scoppio della guerra, poi la rivoluzione bolscevica e lo zar Nicola declassato a spaccare la legna, tutte cose che gradualmente s’insediano in quel bambino dai boccoli rossi e dallo sguardo curioso e attento fino a educarlo e a sostenerne una sensibilità che sarà la sua e la nostra ricchezza. Ovvero, quella scrittura che sarà in grado di conservare prima e di tramandare poi, quel clima che è prima di un popolo, poi di un tempo storico e di un tempo passato, ma soprattutto è di un periodo che riguarda ognuno: l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza. È lì che tutto accade. Singer ci regala un aperto di universi fantastici e reali, dissimili e mutati, alterati. Forse prodigiosi nel senso che sono accaduti ai suoi occhi e alla sua scrittura. Si comprendano tipi come Wolf il carbonaio, oppure Traitl che deve vivere finché non avrà maritato le figlie, oppure il libraio che deve fare testamento. A casa del rabbino di via Krochmalna, ne passavano a decine di soggetti del genere, chi doveva divorziare, chi confidare qualche segreto, chi si doveva soltanto sfogare, chi chiedere soltanto un consiglio. E il mingherlino Isaac a sbirciare e a origliare quelle che erano strane intermediazioni tra gli osservanti e la Torah, tra i fedeli e Dio. Tutto ciò in estrema povertà e dignità. Tutto ciò avendo sempre presente il rotolo sacro, la parola di Mosè o le interpretazioni di altri rabbini. Isaac inizia a leggere il Pentateuco e, racconta egli stesso, aveva iniziato a leggere il Talmud. In seguito, grazie anche al fratello, conoscerà e s’interesserà di altri libri, e si trasferirà con la madre da uno zio, anch’egli rabbino, nella bellissima e lontana Bilgoraj in Austria. “L’estate lasciò il posto a un autunno umido e a un inverno freddo. Correva voce che in Russia fosse scoppiata una nuova rivoluzione, e sentivamo dire che i ricchi spazzavano i pavimenti e accendevano la stufa per i poveri. Qualunque cosa accadesse in altre parti del mondo, Bilgoraj rimaneva uguale a se stessa, sotto il fango e la nebbia. Il maggiore austriaco Schranz e mio zio Joseph amministravano la nuova mensa dei poveri, che dava da mangiare, così mi sembrava, a mezza città”.

Isaac Bashevis Singer, Alla corte di mio padre, Adelphi, pag. 328

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