il nulla affatto murammura meta/
/fisica accorpa corpus l’un’infetta
ferita feritoja: l’ascia, detta
analphabeta, m’usa aperta e vieta
condamn’e_sìa! Data d’ate porta
d’inferminferno quel liminar dèssa
e_lì_minata: cava minia, fessa,
grandangolando l’oltremodo torta
tortura – guarda, cosa fa? non splende?
non splende forse l’un l’altra cometa?
non che non splenda, dìafana al pianeta
satellita silente e mute – muta
la luce d’ombre e notte gravacuta,
sonora, l’hybris ics libris ne rende
È uno dei venti sonetti (luna undicesima) che compongono Giovanni Campi, Luna Muta Altera, Anterem, pag. 49, libro prezioso quanto aristocratico di endecasillabi in controcanto alle figure di Francesco Carbone. Non ne è la parola, la traduzione per verba, come suggerisce l’accorto Stefano Guglielmini, bensì l’immaginifica e schizoide conseguenza o rifrangenza, attraverso una scorribanda nella tradizione plurale della lingua italiana, dal medioevo al contemporaneo. Perché ho usato l’aggettivo aristocratico per definire, se pur sarebbe mai possibile risolvere questo corpo di scritti, che tra l’altro sono di un’intensità emotiva e sonora travolgente, ciò che nella sua essenza è incessantemente indicibile e controverso? Questi sonetti sono davvero belli e ridurli semplicemente a una sperimentazione neobarocca, seppur di grande fascino e maestria – certo la tradizione siciliana di Giacomo Da Lentini, Ugo Foscolo, la traccia di Giorgio Manganelli, o Emilio Villa, nulla da eccepire, anzi – significherebbe non seguirne le interne motivazioni, che seppur valgano poco in poesia, ne rivelino, in questo caso e di questi tempi, qualcosa di veramente dissacrante e raffinatamente poco retorico. E ciò, non escludendo per niente quella meticolosità o abilità di Campi nell’uso di figure formali o stilistiche che fanno del suo linguaggio uno strumento di una perfezione che non richiederebbe nessun commento. Eppure, il suo linguaggio va oltre, provoca. D’accordo, ogni linguaggio provoca, ma ci sono linguaggi e linguaggi. Così come ci sono miracoli e miracoli. Il miracolo del linguaggio, forse, è la grazia per eccellenza. Se non altro, perché avviene di tanto in tanto. Ed è assolutamente impossibile tracciarne le direttive. Forse, qualche analogia, qualche azzardato avvicinamento, tocco, o fuga che sia. Diserzione, forse.
Questo libro è una lega, un ordito o un ordinamento. Una dilatazione, ma perché? Cosa c’è da nascondere che non sia già nascosto? Che cos’è questo temperamento della lingua a uscire da stessa per rientrarci attraverso il canto della parola e il suono del significato? Qui, allora, si nasconde qualcosa che ha a che fare con qualcos’altro? Che cos’è quest’oggetto che si configura così aristocraticamente da tenerci a distanza? Non si pretende di dire, ma di alludere. L’esigenza è che ci sia qualcuno di fronte. Il se stesso (l’identico) che emerge ha bisogno dell’altro (non ancora identico), ma entrambi con maschera. Il distacco è la maschera. “I libri, le opere, le filosofie – se dietro c’è un aristocratico – sono soltanto maschere”. Lo dice Giorgio Colli di Nietzsche, a proposito della sua opera, ma specificatamente di Al di là del bene e del male. Potremo fare lo stesso analogamente con l’opera di Giovanni Campi. E precisamente di questa Luna Muta Altera, le cui parole hanno un che di stabilmente appariscente, sfarzoso, rifrangente. Sono parole terribili. Sono costruite. Il che è ancora più terribile. Tuttavia, e qui si cela il chiaro (le lune), ancora più maschere, e ancora più respingimenti. Più oscurità. Luce e oscurità si giocano l’esperienza smisurata della profondità e la necessità della maschera. Dioniso, forse, non si presentava come il dio mascherato? Il linguaggio non sente forse la necessità di essere celato, di essere distante, di essere radicalmente quell’impulso a dislocare e a dislocarsi, a essere là, dove non c’è più possibilità ma soltanto immediatezza? Volto che si fa chiaro obliquamente al suo irraggiungibile enigma? Suono e sapienza. C’è un punto nel quale non bisogna transigere, la verità non è ostinazione ma pudore. Solitudine. Dunque, slancio poetesco, invece che poetico. Aporetico. Inclinazione alla volontà della forma. Forma libera. Non un ossimoro ma una libertà piena, pulita, distaccata. Ogni comunità, scrive Nietzsche, rende in qualche modo, in qualche cosa, in qualche momento, volgari. Aristocrazia è distacco? No, assolutamente. Intanto, chi ha la forza della profondità? Chi ha la forza della notte se non la voce della parola “muta”? “de lettra muta e dir poco altro ancora, / disancorando l’ombradombra e dorma / per dire d’orme, singola res forma / plurali lune – mute: vel ignora”. Quando Orfeo scende verso Euridice, scrive Blanchot, l’arte è la potenza che fa sì che la notte si apra. La poesia di Campi è tutta la potenza del mito che non sta nell’attenuazione della tenebra, nella tentazione dello sguardo, ma nel chiaro incontro di una notte con un’altra notte: il linguaggio muto e altero della poesia. In breve, la sua aristocrazia. La stessa aristocrazia della sapienza indifferente alla seduzione comunicativa. Quella di Campi, e qui Guglielmini è essenziale, è una poesia che chiede un lettore attento, disposto a perdersi sia nella piega barocca sia nella cenere del senso compiuto, ricevendone in cambio il piacere della libertà dal vincolo e l’esperienza di un dire inaudito. “bucolicando assurdo senno, matti / contrarj, uniti in lotta, stilla a stille, / tra_filo_logico o garbuglj mille / millanta son le storie come ratti”. Forse non c’è nulla di più venerando, infine, della follia e della sapienza. Una durezza necessaria e imbelle. Tuttavia, il linguaggio poetico ne ricava un comando raffinato e una nobile origine. Un modo e un moto d’immediatezza sensibile, e vacuo, “forse, voli e lassi”, o “nequizie”? E scherzi. “la vipistrella, vispa e spiritosa /di spir’to l’animi – legenda: segni / disegni neutri e neutre l’al’inregni, / di spiega che non spiega, come chiosa”. Insomma, tutta da leggere la minuta opera di Giovanni Campi. Che a dirne eccelsa è poca cosa, come a dirne il vero e il falso. L’inganno sono le radianti lune. O l’adultera luce.
Giovanni Campi, Luna Muta Altera, Anterem, pag. 49